Capitolo 3

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Skylar

Fino al ritorno dei miei genitori sapevo che se volevo cancellare dalla mente il suo viso, mi sarei dovuta tenere occupata sia mentalmente che fisicamente e così iniziai a: pulire, fare la lavatrice, cucinare, stirare, fare palestra in camera mia, cambiarmi le lenzuola per poi finire con una doccia dimenticandomi di pranzare fino a quando sentii la porta di casa aprirsi e farsi così ora di cena.

Scesi le scale per andargli incontro, erano entrambi fermi sull'uscio di casa a guardarsi attorno con un grosso punto interrogativo sul volto. Vidi mia madre annusare l'aria come fosse un segugio sin quando non mi individuò sulle scale e alzò un dito in segno di rimprovero stringendo lo sguardo scuro, mentre la chioma tinta di un biondo miele le ricadde davanti alle spalle.

«Spero tu l'abbia fatto per farti perdonare», fece lei mentre la sua rabbia le scivolava via dalle spalle, probabilmente per via della stanchezza non aveva molta voglia di discutere.

«Sì», tagliai corto, meglio farle credere quello che voleva sentirsi dire, che il contrario. Mio padre mi rivolse il suo sguardo ghiaccio smascherandomi, ma restò in silenzio.

Scesi le scale e mi avviai verso la cucina. «C'è la cena pronta se volete mangiare adesso. Siete arrivati più tardi del solito».

«Abbiamo avuto un'urgenza e vari pazienti dal pronto soccorso, che stanchezza... vado a farmi una doccia e poi ceniamo», annuii alle parole di mia madre mentre mio padre mi seguiva con lo sguardo, si tolse il soprabito e mi raggiunse poco dopo appoggiandosi su una spalla allo stipite della porta tenendo le braccia conserte con lo sguardo di chi già aveva capito tutto. Il fatto che da relativamente poco tempo i suoi capelli passarono da neri a brizzolati lo rendevano un uomo di mezza età di bell'aspetto, oltre al fatto che gli veniva molto più semplice intimorire qualcuno, me compresa. Mia madre invece sembrava avesse fatto un patto con qualche entità, sembrava non invecchiasse mai: aveva la pelle giovane nonostante anche lei si avvicinasse alla mezza età, penetranti occhi scuri come i miei e le bastava sorridere per trasformarle il viso nella persona più accogliente della terra - tranne con Jill, Violet e Derek -. Entrambi amavano il loro lavoro, sembravano essere stati forgiati apposta per lavorare in ospedale.

«È successo qualcosa?» Papà mi guardava con sguardo interrogatorio mentre apparecchiavo la tavola.

«Cosa ti fa pensare che sia successo qualcosa?»

«Parecchie cose», rispose lui continuando a guardarsi attorno come a voler evidenziare il fatto che avessi pulito casa da sola, da cima a fondo, «con questo non voglio dire che devi pulirla più spesso, però se ti ha portata a questo...».

Girai di scatto il capo, lo guardai seria e lui alzò le mani all'altezza delle spalle, «scherzavo, volevo sdrammatizzare», restò in silenzio e io continuai ad apparecchiare, «sei sicura che sia tutto ok?».

«Se vuoi mi invento qualcosa così ti rendo felice e abbiamo un motivo per parlare»

Lui sospirò pesantemente, «questa maledetta adolescenza».

Non sentivo la necessità di parlare con loro, tanto meno di quello che era successo al parco. Tanto, non l'avrei più rivisto. Era sicuramente lì di passaggio.

Durante la cena mia madre mi ripeté per la millesima volta che avrei dovuto avvisarla in anticipo e che i cambi di programma dell'ultimo minuto la rendevano parecchio nervosa e io come mio solito mi misi ad annuire e a promettere che non l'avrei più fatto, sapendo bene che non avrei mantenuto quella promessa tanto a lungo.

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