Capitolo 21

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Cameron

«Eccoti, allora è qui che ti nascondi», la guardai seduta per terra al centro della stanza nella sua felpa troppo grande, i capelli privi di extension appoggiati sulle spalle e quei grandi occhi castano miele che mi osservavano.

«Che diamine ci fai tu qui? E soprattutto, chi ti ha fatto entrare?», poteva sembrare infastidita, ma dal suo tono, si capiva che non le dispiaceva affatto avermi lì - almeno spero -. Continuai a salire per la scaletta cigolante così poco sicura da chiedermi come lei faccia a salire senza il timore che potesse rompersi da un momento all'altro, «hey! Fermati, non ti ho dato il permesso!», ma ormai avevo già più di mezzo busto in soffitta.

Lei si mise in piedi senza far leva sulla gamba malata fissandomi col viso imbronciato, ma il mio sguardo si perse in ogni angolo di quella stanza. Oltre al forte odore di chimico, di alcol, di tempere e di libri, era enorme, col soffitto a botte esaltato dalle grosse travi di legno, ogni parete era tappezzata da alti mobili vecchi con tele ancora da utilizzare, colori, quaderni già finiti e non, infondo, davanti a me, c'era una grande finestra a semicerchio che faceva entrare la luce da fuori e posta proprio là sotto, c'era una grande e lunga scrivania - sempre in legno - con fogli, tavolozze, barattoli di vetro con acqua sporca, pennelli, gessetti, matite, pastelli, penne, un piccolo stereo e un computer in un angolo della superficie, accanto un cavalletto piuttosto grande, mentre per terra appoggiati, stavano le tante tele già usate. Ovunque mi girassi mi sembrava di trovarmi in un campo di girasoli, le tele più grandi - che lei teneva dietro questi ultimi - erano quasi tutti paesaggi e tramonti dai mille colori. Come una distesa di fiori gialli su un cielo che, da sinistra a destra, prendeva ogni sfumatura inimmaginabile.

Ero senza parole, mi ricordava molto l'aula di pittura.

A riportarmi con i piedi per terra fu Lily che mi chiuse la bocca spingendomi il mento in su. Il viso ancora un po' imbronciato, e se prima provavo solo sorpresa, ora che potevo guardarla meglio e da più vicino, il livido che Derek le aveva lasciato sul volto era, sinceramente, orribile. Viola a striature rossastre - sulla guancia - contornato di giallo.

«Chiudi la bocca o ti entreranno le mosche e poi... smetti di fissarmi», e mi diede le spalle allontanandosi di qualche passo da me. Chloe mi aveva avvertito di essere discreto, ma se c'era una cosa che non sapevo fare, era mascherare le mie emozioni.

Cercai di cambiare discorso, «mi ha aperto tuo padre e mi ha detto che probabilmente ti avrei trovato qui in soffitta, è bellissima, li hai fatti tu questi?», riferendomi ai tanti quadri che tappezzavano la stanza.

Lei non rispose subito, «Di che ti sorprendi? Hai già messo piede qui», lo avevo fatto?

Non lo ricordavo.

«Beh al tempo non c'erano tutti questi quadri, ti sei data da fare, vedo», finsi di aver dimenticato quel piccolo particolare e lei si girò a guardarmi, vidi il sopracciglio sinistro incurvarsi ulteriormente con un leggero scatto, incrociò le braccia al petto e si mise a camminare lentamente verso la grande scrivania, si fermò e si voltò verso di me. Indossava dei pantaloncini neri, di quelli tanto aderenti - le ragazze le chiamano Culotte - che le lasciavano le gambe scoperte, nude. Avevano qualche livido viola qua e là, all'altezza delle cosce, indossava il tutore al ginocchio e dei calzini bianchi ai piedi. La seguii con lo sguardo.

«Già, erano decisamente di meno», aveva un tono piuttosto serio, come se stesse nascondendo qualcosa o non fosse convinta di quello che stesse dicendo, «non hai risposto alla mia domanda, perché sei qui?»

«Non è ovvio?»

«Non si risponde a una domanda con un'altra domanda», lei si fermò, tornò a guardarmi, e senza abbandonare quell'espressione, alzò appena il mento come a volersi mostrare autoritaria, ma a me non faceva l'effetto che sperava, anzi, tutto il contrario.

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