Capitolo 5

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Now playing: The Wind, Cat Stevens


La dimora di Connor Richardson e Daisy Morgan poteva essere definita tutto fuorché discreta.

Collocata appena fuori New York in un'area che ospitava solo residenze altrettanto maestose, la casa conteneva un numero spropositato di camere suddivise tra i tre piani che la costituivano. Per accedervi bisognava oltrepassare un imponente cancello - al cui centro erano affisse una M ed una R unite per un gambo e placcate in oro - oltre il quale una strada in pietra levigata costeggiata da piante e fiori potati alla perfezione portava al porticato che precedeva l'ingresso. Sul retro della casa, un enorme giardino ospitava una fontana, una piscina, un campo da tennis e persino un mini-labirinto che mia madre aveva fatto costruire un'estate in cui aveva deciso di doversi dedicare di più a quella parte della casa; all'interno, poi, non mancavano di certo una sala cinema, una palestra super attrezzata, una sala giochi e, ovviamente, anche una sauna.

Avevo vissuto tra quelle mura fin quando non avevo cominciato a frequentare la NYU, e da quando ero andata via non avevo mai sentito il bisogno di tornarci a vivere. Sarà stato che, essendo la più piccola dei tre Morgan Richardson, ero stata l'ultima a rimanere in quella casa enorme dopo che mio fratello e mia sorella erano andati via, o semplicemente il fatto che non avessi mai condiviso le manie di grandezza dei miei genitori. Fatto sta che ogni volta che mettevo piede lì dentro perché i miei richiedevano la mia presenza per un pranzo o una cena, ero sempre impaziente di andare nuovamente via.

Questo, a dirla tutta, non era forse colpa solo della casa in sé.

«Riley, hai pensato alla proposta che ti ho fatto?»

La domanda di mio padre arrivò subito dopo che Samantha, mia sorella, ebbe finito di raccontare varie vicende che avevano avuto luogo sul set dell'ultimo film che aveva girato. Lei, così come mio fratello Dylan, vivevano e lavoravano a Los Angeles e solo di rado tornavano lì a New York. Mia sorella aveva scelto la carriera di attrice e, nonostante non avesse ancora avuto un ruolo che le aveva permesso di farsi un vero e proprio nome ad Hollywood, se la cavava piuttosto bene nei ruoli che le venivano offerti. Mio fratello era, invece, tutt'altra storia: aveva provato la carriera di attore e vi aveva rinunciato dopo il secondo ruolo marginale che gli era stato offerto; si era a quel punto buttato sulla musica, ma la collaborazione che aveva rilasciato insieme ad un cantante piuttosto famoso non aveva dato i risultati sperati ed aveva allora rinunciato anche a quello. Di recente, invece, aveva deciso che la sceneggiatura fosse la sua strada e stava quindi momentaneamente lavorando al suo primo scritto originale.

Per farla breve, quindi, tra i tre Morgan Richardson io ero l'unica ad aver realmente mostrato interesse per la stessa branca artistica che aveva dato un nome ed un lavoro ai miei genitori. E, purtroppo per loro, ero anche l'unica dei tre a non essere neanche lontanamente interessata a far realmente parte di quel mondo.

«Te l'ho già detto, papà,» esordii, pulendomi le labbra con il tovagliolo prima di poggiarlo nuovamente sulle mie gambe, «non ho alcuna intenzione di modernizzare né di vendere il Paradise.»

Mio padre era convinto al cento per cento che il mio rifiuto riguardo l'intraprendere una vera e propria carriera canora fosse il Paradise - o, come lui preferiva definirlo, quel bugigattolo antiquato. Di conseguenza, ogni singola volta che eravamo nella stessa stanza mi proponeva di venderlo, o quanto meno di modernizzarlo e poi darlo in gestione a qualcun altro. Chiaramente, ogni singola volta quelle richieste trovavano un mio fermo rifiuto.

«Non mi riferivo al Paradise,» disse dal suo posto direttamente di fronte a me alla tavola rotonda che occupava il centro di quella sala da pranzo, «anche se potresti almeno pensare di dare una ripulita a quel posto.»

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