Capitolo 16

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Now playing: Livin' on a Prayer, Bon Jovi


C'era qualcosa di profondamente ironico nel fatto che, ogni singola volta che mettevo piede nel training center dei New York Giants, nella mia mente partisse in automatico una canzone dei Bon Jovi.

L'ironia stava nel fatto che, in giovinezza, il frontman del famoso gruppo rock - Jon Bon Jovi appunto - era stato un avido fan del team di cui, al momento, il mio migliore amico faceva parte, a tal punto che, nel 1990, si era persino finto un fotografo per poter assistere ad una partita contro i Cowboys da bordocampo. A quella prima volta ne erano seguite poi tante altre, nel corso di quella stagione, ed il rocker aveva nel mentre stretto solide amicizie con giocatori, coach, persone dello staff e, in particolare, con Bill Belichick, che al tempo ricopriva la carica di coordinatore difensivo dei Giants; il legame tra i due era divenuto talmente forte che, quando Belichick era, successivamente nella sua carriera, diventato capo-allenatore dei New England Patriots, la lealtà sportiva di Jon Bon Jovi era mutata a favore della squadra allenata dall'amico di vecchia data, e da allora non si era mai più guardato indietro.

Era per questo una regola non scritta, in quel posto, l'evitare il più possibile di far risuonare tra quelle mura una qualsiasi canzone della rockstar - che era anche l'esatto motivo per cui, quando ero lì, non riuscivo mai a pensare assolutamente a qualsivoglia altro artista o catalogo musicale. Quel giorno, a quanto pare, era il turno di Livin' on a Prayer di risuonare a ripetizione nella mia testa.

La scelta non era probabilmente stata casuale, per il mio subconscio, ma piuttosto dettata dalla preghiera che continuavo a ripetere come un mantra da quella mattina e che riguardava il non imbattermi in Nathan mentre ero nel posto in cui passava più tempo in assoluto. Non ero infatti lì per assistere agli allenamenti - come, tra l'altro, raramente negli anni avevo fatto - e nemmeno per un semplice saluto, ma avevo invece in mente una ben delineata missione e poco tempo per portarla a compimento.

Per questo, dopo aver mostrato il mio pass all'ingresso, avevo inviato un messaggio al mio migliore amico per chiedergli casualmente cosa stesse facendo e, quando mi aveva risposto di essere in pausa pranzo, avevo deviato il più possibile dalla mensa per poter invece raggiungere la sala attrezzi. Il mio scopo era trovare chiunque conoscessi per potergli chiedere di mandare da me la persona che stavo cercando, un piano non eccellente ma nel quale riponevo abbastanza fiducia; mi bastò tuttavia attraversare la porta della grande e super attrezzata palestra per rendermi contro del fatto che ci fosse un solo giocatore dei Giants che, mentre tutti erano in sala pranzo, poteva preferire rifugiarsi lì dentro perché stava evitando Nathan più di quanto non stessi, al momento, facendo anche io.

«Proprio te cercavo» esordii allora non appena lo vidi, non tardando ad andargli incontro.

Zeke era disteso a torso nudo su una panca per gli addominali, l'espressione concentrata mentre ripeteva quella che doveva essere l'ennesima sequenza; nel sentire la mia voce, si bloccò nel bel mezzo di una ripetizione e le sue sopracciglia quasi toccarono l'attaccatura dei capelli scuri. «Riley, che ci fai qui?»

Prendendo posto sulla panca libera accanto alla sua, replicai «devo parlarti.»

«E non potevi mandarmi un messaggio, invece di venire fino a qui?»

«No, prima di tutto perché volevo parlarti di persona, poi perché non ho nemmeno il tuo numero ed avrei quindi dovuto chiederlo a Nate, che era esattamente l'ultima cosa che avevo intenzione di fare.»

Alla pronuncia del nome del mio migliore amico, l'espressione di Zeke subito mutò da una di leggero divertimento per il fatto che fossi lì perché non avessi il suo numero, ad una improvvisamente quasi di pietra.

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