Capitolo 4

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Now playing: Heart of Gold, Neil Young


Una delle mie storie preferite tra tutte quelle che, negli anni, mio nonno mi aveva raccontato, riguardava Neil Young ed il modo decisamente inusuale in cui aveva fatto ascoltare, per la prima volta, il suo album Harvest a Graham Nash.

Era stato proprio quest'ultimo a raccontare che quell'ascolto non era avvenuto in uno studio di registrazione, né tramite un paio di cuffie collegate ad un riproduttore di cassette; invece, Young aveva portato Nash su una barca in mezzo al laghetto della sua proprietà in campagna e, con la casa che faceva da gigantesco ed assordante altoparlante sinistro ed il fienile da quello destro, aveva riprodotto Harvest in quel modo strano ma innovativo che di certo sarebbe per sempre rimasto nella storia della musica.

Da quando avevo sentito quella storia per la prima volta avevo sempre desiderato di poter vivere un'esperienza simile, con la musica che riempiva totalmente l'aria mentre ero immersa nella natura ed il suono delle chitarre che si univa a quello del cinguettio degli uccelli. Al Paradise avevamo album sempre diversi in riproduzione praticamente tutto il giorno e, anche se lì mi trovavo nel bel mezzo di New York City ed al posto del suono degli uccelli sentissi, al massimo, quello del traffico cittadino, il semplice fatto che fossi costantemente circondata da musica mi era comunque sempre sembrata una valida alternativa.

Sempre, tranne che quel giorno.

«Non vedo l'ora di andare a casa,» mi lamentai, probabilmente per l'ennesima volta da quella mattina, «la testa mi sta scoppiando.»

Per sottolineare quella non poi così esagerata affermazione, poggiai i gomiti sul bancone della cassa e mi presi la testa tra le mani. Mentre la sera precedente mandavo giù un drink dopo l'altro, avevo chiaramente dimenticato il fatto che, a quasi ventinove anni, il mio corpo non metabolizzasse più l'alcool tanto velocemente quanto aveva fatto fino a qualche anno prima.

«Già, lo hai ripetuto solo circa mille volte, da quando abbiamo aperto il negozio» sottolineò infatti Julia, lasciandosi andare ad una breve risata. «Vai a casa, posso chiudere io.»

«No, posso resistere.»

«Vai a casa, Riley.» Sollevai lo sguardo al suo tono sterno, il quale non aveva però comunque cancellato il sorriso perennemente presente sulle sue labbra. «Manca meno di un'ora, posso cavarmela da sola.»

«Lo so, ma—»

Afferrò la mia borsa da sotto al bancone, infilandoci dentro il mio cellulare prima di spingerla verso il mio petto. «Ci vediamo domani.»

Con uno sguardo colmo di gratitudine, l'abbracciai velocemente prima di fare esattamente come mi aveva suggerito - o meglio, imposto - e lasciarmi il Paradise alle spalle.

Il sole stava calando tra i grattacieli, colorando il cielo di sfumature arancioni che si mischiavano al blu della sera che, comunque, non sarebbe calata ancora per un po'. La città era ancora nel pieno dell'attività, con le macchine che sfrecciavano in entrambe le direzioni nelle due corsie di marcia, le persone che affollavano i marciapiedi e la maggior parte dei negozi ancora aperti. L'appartamento che io e Nathan condividevamo era distante meno di mezz'ora a piedi dal Paradise, ma se di solito quella passeggiata che, per un tratto, costeggiava persino Central Park non mi dispiaceva per niente, quel pomeriggio preferii attendere qualche minuto l'arrivo del mio autista personale che mi ci avrebbe portata in decisamente meno tempo.

Il portiere nel gabbiotto posto nell'androne del palazzo mi salutò non appena mi vide entrare, gesto che ricambiai amichevolmente mentre raggiungevo gli ascensori moderni che funzionavano solo con dei codici - personali per noi che ci vivevamo, temporanei per coloro che invece erano lì in visita; il pianerottolo del ventunesimo piano si aprì presto davanti a me, lasciandomi la visuale dell'unica porta presente lì sopra e che non tardai ad aprire con ancora un altro codice.

3000 Love SongsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora