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PENA CAPITALE

Controlla l'orario, controlla se sei in tempo

Dei passi interruppero il silenzio del lento sussurro di due note che si ripetevano costantemente.
Tom alzó lo sguardo sulla figura malinconica di sua madre che lo guardava tenendo le braccia distese con le mani unite in un intreccio, poi abbassó il capo arresa.

Lui spostó le dita dalle corde che poco prima pizzicavano quelle di una chitarra. Dedicó attenzione alla madre chiaramente giú di morale, piú giú di sempre.

«Non ce l'ha fatta» Sputó fuori.

Quelle quattro parole pronunciate in un'unico soffio, letale, senza preavviso, risuonarono rumorose, come se avesse gettato di punto in bianco un urlo inquietante da fare ribrezzo all'anima, origine di un vuoto fisico dentro sè, negli organi specialmente. Un'acuta nostalgia per una forma di vita estinta la quale non fece altro che ignorare. Gli brució il cuore quando i sensi di colpa lo trafissero automaticamente, facendolo risalire ai momenti passati insieme.
La colpa era sua, un'enorme ammasso di rabbia, rifiuto di quell'affermazione considerata collera per la sua coscienza sporca. Non era in grado di pensare al futuro, ad un domani senza la sua anima gemella al suo fianco sempre pronta a farlo ridere quando c'è ne sarebbe stato di bisogno, e a farlo piangere di nervoso se capitasse un litigio. Ed era cosí che avevano sempre fatto le due cose, equilibrando due stati. Da quel giorno in poi non sarebbe stato più cosí, per colpa sua. Ebbe una specie di schock che lo portò a tacere per un bel pezzo. Le mani gli sudarono freddo, cosí come anche tutto il resto del corpo, le tempie gli presero a pulsare come tamburi, e la testa fece delle giravolte che anche da seduto sentiva la macabra sensazione di cadere in un orifizio profondo senza uscirne in nessun modo. La sua, sua grandissima colpa. Di tutte quelle volte che lo aveva rifiutato, rigettato e costruito cosí un legame sporco e tossico. Aveva riempito d'aria negativa un palloncino, ignaro del fatto che un giorno sarebbe scoppiato lasciando al suo cuore schizzi di sangue irrecuperabili. E solo in quel momento, si rese conto, che quel sangue pungente appartenesse al suo stesso, al suo sporco sangue. La differenza da quello del gemello, cosí puro.

Era sbiadito in faccia, una sola parola lo avrebbe stordito. Voleva urlare, gridare la sua frustrazione, ma evidentemente doveva sfogare questa suo rifiuto dinanzi ad uno specchio, lí dove si trovava il suo riflesso. Perché era a lui che doveva delle colpe, era a lui che aspettavano le conseguenze. E gli stava bene così.

«Ah» Reagí d'impulso. Una paroletta per dire che non ci fosse nulla da dire. Non seppe cosa dire, nè cosa fare. Piangere forse era la cosa piú ovvia che potesse realizzare, aveva già versato tante lacrime e pianti irriversibili in quel periodo, tanto che poteva ottenerci un lago se le avesse pian piano raccolte.

Un'attimo dopo si ritrovó a specchiarsi sul finestrino della sua auto; era vestito di nero.
Marció con Simone verso quella chiesa solitaria ed economica della zona, la cui ne aveva sempre odiato la frequentazione quando faceva catechismo con Bill, ed ora quella stessa aveva l'onore di guardarlo privo di sensi.

Dato il presto orario e l'assenza di tutti, si mise a girare a vanvera per la chiesa annoiato. Squadró con una certa espressione tutti i diversi quadri e statue inquietanti dei santi che davano un senso di angoscia. Simone che piangeva sulla prima panca con un fazzoletto tra le mani, produceva singhiozzi che facevano eco in un canto malinconico.

Dopo uno studio attento del luogo, arrivó poi accanto alla madre che guardava piangente la bara ancora aperta sull'altare. Si avvicinó lentamente all'obbiettivo e un'intensa nausea lo colpí quando incroció gli occhi chiusi del fratello deceduto, diventato giallo per il freddo e per la pena capitale. Si pietrificó sul posto nel guardare il suo riflesso in condizioni putrefatte che immobile, dormiva pacifico nell'eterno. Era nudo, privo di vestiti, e per qualche motivo teneva solamente un peluche tra le mani; l'unicorno che tanto voleva e che il suo fratellone di merda gli aveva regalato.

Chiuse gli occhi anche lui per interrompere per un'istante quella pietosa visione voltastomaco. Immaginó anche se banalmente, un posto non terrestre con l'intento di trasportarsi lí da un momento all'altro, ma si ritrovó in camera, al buio costretto a guardare il lampadario. Non successe nessuna magia, se non fosse per il fatto che quello era solamente un'insignificante sogno che trasse spavento.

Aprí gli occhi e solo dopo un po' si accorse che si era appena addentrato in un sogno profondo da cui ne era uscito terrorizzato e smarrito. Non seppe da quando tempo stesse sognando lo stesso incubo, ma sicuramente passó non poco. Ridere o piangere?
Alzarsi e andare dalla mammina dopo un brutto sogno per un conforto, non era da sè, era il solito tipo riservato che preferiva rimanere taciturno affinché la situazione si calmasse, e piuttosto, era abituato a ricevere conforto da Bill, che senza aprire bocca lo abbracciava comprendendone il dolore.

Rimase a fissare il soffitto buio mentre si faceva cullare dal letto cigolante e tremante che lui stesso scuoteva con i suoi movimenti spaventati.

Riuscí difficilmente a credere che quello fosse solamente un brutto sogno, era troppo reale per essere tale. Una rabbia repressa nei suoi stessi confronti lo portó alla conclusione che se ancora teneva a Bill, poteva come minimo andarlo a vedere giornalmente in ospedale con la speranza di trovarlo vivo. Aveva però paura di vederlo sofferente, piú o meno la stessa paura di guardarlo morto nel sogno; non poteva paragonare certe cose.

Poco dopo il terrore gli scivoló addosso, cessó l'effetto dell'incubo ma l'ansia gli rimase addosso come cenere. Chissá in quel momento, a metá notte, cosa stesse facendo Bill, che suono stia producendo attraverso il tubo e il cardiogramma. Frastuono o meno, speró vivamente potesse superare anche quella volta, la notte.

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