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NOTTI INSONNI

Le quattro del mattino conosceva i suoi segreti

Berlino, dicembre duemilaenove.

Tom andó a lavoro regolarmente, e quel giorno, come sempre, fu impossibile non accorgersi degli occhi perennemente puntati addosso. I bisbigli lo seguivano ovunque andasse, e da quando la notizia dell'incidente di suo fratello si diffuse in città, non riuscirono a parlare di altro. In sua presenza poi!

Quello stesso giorno, venne a sapere che Richie si era trasferito in un'altra città (Non poteva esserne piú che contento, da quando gli fu giunta voce alle orecchie, rimase di buon umore per tutta la mattinata).

La sua vita prese a scorrere molto piú flemmatica e ordinaria, ma non passava giorno in cui non andasse a trovare Bill.

Quando staccava da lavoro, si dirigeva subito in ospedale e percorreva i corridoi sicuro di sè, in completa autonomia.
G

li portava nuovi mazzi di fiori, - rose in particolare - sostituendoli a quelli vecchi; continuava a raccontargli storie e faceva i compiti su una sedia vicino al muro; gli ripeteva geografia, biologia, e insieme studiavano la letteratura. Insieme un modo di dire.
«Oggi il professore ci ha chiesto di fare un saggio su un'opera antica a piacere, ma non la voglio fare. Che palle, ma perché ci fa fare queste cose strane?» Enunció sbuffando una sera. «Comunque io ho scelto l'Odissea, la prima che ho trovato sul libro» Sfioró le pagine nel bip acuto del suo battito cardiaco. «Ulisse alla fine ritorna a casa» Disse piano. «Dopo tante difficoltà, dopo aver superato prove indicibili, Ulisse ce la fa. Alla fine torna da Penelope. E scopre che lei lo ha aspettato. Per tutto quel tempo lei lo ha aspettato» Fece una pausa non capendo cosa volesse dire. «Bill ti stavo per chiedere, "me la spieghi?"» Ridacchió per la sua stessa battuta di merda e con un nodo in gola tornó a guardare la lettura.

Bill rimase immobile, nel suo candore spento. Le palpebre erano così pallide e fini da sembrare un sudario. Si potevano intravedere le vene.
A volte Tom si trovava a chiedersi quanto gli costasse sollevare quei due lembi sottili di pelle che gli ricoprivano gli occhi. Lui restava con il gemello più che poteva; le infermiere cercavano di mandarlo fuori, di spingerlo all'aperto da quelle quattro mura bianche, forse più per il suo benessere che non per rispetto delle normative dell'ospedale. Smisero quando una sera, Tom venne sorpreso lì, rannicchiato su se stesso, che cercava di dormire sulla sedia metallica del corridoio. Non lo sgridarono, quella volta, avevano perso la pazienza. Però la caposala gli disse che la sera, almeno la sera, doveva tornare a casa.

Ma lui non voleva.

Tom voleva restare con Bill.

Perché ogni notte Bill diventava sempre più pallido e più lontano, e Tom avvertiva la sua anima rosicchiargli le ossa per ogni istante che non passava appeso alla sua mano, a cercare di trascinarlo via da quell'abisso.

Il trecciato arrivava sempre un po' prima, cosí gli parlava un po' di più, e nel fine settimana, quando non lavorava, era lui ad aprirgli le tende la mattina, era lui a sussurrargli buongiorno, e portava con sè sempre un nuovo mazzo di fiori da troppi euro. Aveva rinunciato addirittura a qualche pacco di sigarette per pagargli quelle maledette rose.

Ogni tanto faceva venire anche Chanel per aiutarlo a sistemare le coperte e per tenergli una compagnia maggiore.

Ma la notte...

La notte Tom sognava mani bianche, e palpebre aperte su galassie di stelle. Lo sognava guardargli con quegli occhi unici e profondi, e ogni volta, Bill gli sorrideva. Lo faceva in quel modo dolce e sincero che da tempo ormai si era dimenticato. In quel modo vero che gli scavava addosso un'assenza dilaniante. E quando al mattino si accorgeva che era stato tutto un sogno, quando si rendeva conto che lui non era davvero lì, il petto gli si spaccava a metà e non poteva fare altro che mordere il cuscino fino a sentire in bocca il sapore delle lacrime.

Eppure il giorno dopo era sempre lì, in quella stanza bianca, con nuovi fiori e l'anima a pezzi.

«Oh» esaló un mattino, vedendo che dopo un temporale il sole aveva finalmente squarciato il cielo: la luce si era spaccata in un milione di pezzi e un arcobaleno scintillava vibrante in tutte le sue tinte.

«Ma guarda» sussurrò piano. Un sorriso triste gli strinse la gola. «Mi ricordo che tu scattavi sempre foto all'arcobaleno. Sapevo fossi gay» Aggiunse mantenendo il suo solito sarcasmo.
La sua mano tremò. Pochi attimi dopo, stava uscendo dalla stanza con le labbra contratte e le dita a coprirgi gli occhi.
C'era qualcosa di disperato nella vita che andava avanti. Qualcosa che, nonostante il suo affanno, scandiva lo scorrere di un fiume inesorabile.

Non importava quante volte desiderasse che rallentasse.

Non importava quante volte lo pregasse di fermarsi, di guardare ciò che si stava lasciando indietro.

Il mondo non aspettava nessuno.

Prenditi Cura Di MeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora