Capitolo 14. Arya

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Sono nel bosco.
Posso sentire il vento tra i capelli, il rumore che faccio, mentre mi trascina sulla terra umida. L'odore.
È sopra di me.
La faccia deformata dalla rabbia, si trasforma in quella di un altro uomo.
Quelle che mi stringono la gola, però, sono sempre le stesse mani.
Provo a liberarmi, tirarle via, graffiarlo, ma non ci riesco.
Continua a ripetere sempre le stesse parole: "Tornerò a prenderti mia dolce Arya".

Mi metto seduta sul letto che ancora tremo. Le mani attorno alla gola sono le mie, sempre.
Aspetto qualche minuto che il mio cuore e il respiro si plachino poi decido di alzarmi.
Tanto anche volendo non riuscirei a dormire e stare ferma a letto mi porterebbe a pensare. E i miei pensieri alla fine porterebbero a lui.
Penserei a quanto tempo è passato da quando è andato via. Sei giorni.

Li ho contati, pur essendomi imposta di non pensarci, di non versare una lacrima.
Ho promesso a me stessa che non mi sarei più affezionata a nessuno, non  tanto da star male. Che non avrei permesso più a nessuno di avere quel potere su di me. Ho detto a me stessa che non mi sarei innamorata, mai più.
Ho dato tutto ciò che ero, tutto ciò che avevo a lui e ora mi ritrovo sola, spaventata.

Incasinata.

Non dormo più. Non mangio più.
Vivo in un continuo stato di allerta.
Le chiamate anonime continuano.
Non hanno mai smesso da quando sono iniziate, il primo giorno che sono rimasta sola al Karen. Chiamano solo quando sono da sola, sempre al telefono del locale. Squilla finché non rispondo, ma quando lo faccio dall'altra parte c'è solo un silenzio inquietante.

Anche Jake che viene a disturbarmi almeno una volta al giorno, ha capito che c'è qualcosa che non va, ma ho deciso di non raccontare a nessuno delle chiamate. Non voglio mettere in  pericolo nessuno. Sapevo già che qualcuno sarebbe arrivato a me, l'ho messo in conto, quando per l'ennesima volta ho rinunciato a fuggire per aiutarlo. Mi aveva giurato che le cose sarebbero state diverse, sembrava davvero così poi ha fatto ciò che ha fatto ed è fuggito via, codardo.

Esco dalla mia camera già pronta per uscire. Sono solo le quattro del mattino. Dietro di me, la porta del bagno si apre ed esce Charlotte ancora mezzo addormentata. Ha un espressione preoccupata così mi fermo a salutarla, con un sorriso tristemente finto e due occhiaie da panda. A bassa voce le dico: « scusa se ti ho svegliata. Vado in cucina e poi direttamente a lavoro, puoi dirlo tu all'orso? » Accenno con la testa alla porta della camera, quasi vibra per il russare di Hank.

« Aspettami in cucina » risponde sulla soglia della loro camera.

Quando torna sto mettendo il caffè nella tazza e il resto nel thermos, si schiarisce la voce facendomi sobbalzare. Quando mi volto la trovo già seduta, al tavolo della cucina.

« Come fai ad essere così furtiva? » Chiedo cercando della carta per asciugare il casino che ho combinato facendo cadere il caffè.

Si alza e si avvicina a me prendendomi la tazza dalle mani.
Alza le spalle, « uscendo di nascosto di casa la notte suppongo. »

Preparo di nuovo il caffè e gliene verso una tazza, poi lasciola caraffa sul bancone voltandomi per andare via.

« Dove credi di andare? Siediti qui con me tesoro. » Ha quello sguardo.
Lo sguardo del rimprovero, con le mani congiunte sopra il tavolo. Mi ricorda Miranda quando ci beccava a litigare, ci rivolgeva sempre quello sguardo. Poi partiva con la ramanzina su quanto fosse importante la famiglia. Mi piaceva quando lo diceva, significava che anche io ero parte della famiglia. Facevo parte di qualcosa.
Ora non so più se sono parte di qualcosa.
Se è rimasto qualcosa di quella bambina, della vera me, per intenderci. Ha portato via con sé ciò che ero, oltre a tutto ciò che avevo.

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