66⭐ - @CristinaBaesso

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Lista 66

IL PREZZO DELLA VENDETTA di CristinaBaesso

"Non andare, ti prego!"La voce strozzata, di quella supplica ripetuta all'infinito, gli rimbombava nella testa

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"Non andare, ti prego!"
La voce strozzata, di quella supplica ripetuta all'infinito, gli rimbombava nella testa.
Non l'aveva ascoltata.
Non ascoltava più niente e nessuno da tempo.
Il suo unico scopo: la vendetta.
L'ingiustizia, concetto che non concepiva, lo aveva spinto a prendere decisioni impulsive.
La vita vissuta rispettando regole e ordini, credendo davvero di essere meritevole di rispetto per aver fatto tutto nel modo giusto, come gli era stato insegnato, non era valsa a niente. Scoprire che era tutta una farsa lo aveva dilaniato.
"Non andare, ti prego!"
Quella cantilena straziante continuava a ripetersi, incessantemente, nelle sue orecchie, come quelle canzoncine che non sopporti, ma una volta sentite, non riesci a smettere di canticchiare. Non aveva voluto ascoltarla, non aveva voluto sentirla, e ora, non riusciva a togliersela dalla mente. La nausea lo assalì. Si piegò su se stesso, rigettando bile e rimpianto.
A cos'era servito? Che cos'era, davvero, cambiato?
Si pulì la bocca passandoci la mano con stizza.
Guardò l'orizzonte.
La montagna sorgeva davanti ai suoi occhi, cupa e oscura, come quando l'aveva scalata. Tutto restava immobile, come un'immagine riprodotta su una vecchia pergamena sbiadita. La luna piena, enorme, non riusciva a illuminare quell'angolo di mondo in cui si era realizzato il suo desidero; allo stesso modo, quella immane vittoria non gli aveva portato alcun sollievo. Anche gli uccelli e gli alberi erano fermi, come la nebbia che offuscava i piedi del monte, creando un'effetto di sospensione. La stessa coltre ottenebrava anche la sua anima. Sì, tutto era sospeso, nello spazio e nel tempo. Niente si muoveva. Nessun suono si udiva, tranne quello nella sua testa:
"Non andare, ti prego!"
La debolezza che lo assalì sapeva di epilogo. L'adrenalina, che lo aveva reso invincibile e insensibile, lo aveva alfine abbandonato, lasciandolo stremato... confuso. Su quel promontorio, intriso del suo stesso sangue, di fronte al nemico abbattuto, sarebbe finita la sua vita.
La vendetta aveva una doppia faccia, come ogni medaglia: da un lato la vittoria, dall'altro la sconfitta. Ma, cosa aveva vinto e quanto aveva perso, restava un'incognita.
Rispetto, onore, dovere, lealtà, coraggio! Questo insegnava il codice del bushido* inculcato nel suo animo fin da bambino. Guidare l'esercito, la sua massima aspirazione.
E aveva raggiunto, in fretta, ogni traguardo, con sudore e fede... una fede cieca, leale fino alla morte. Convinto di essere nel giusto.
Un burattino, ecco cos'era stato, per i suoi superiori. Una marionetta, manovrata da parole di stima e lodi. Tutto ciò di cui la sua anima aveva bisogno per nutrirsi. E loro lo sapevano.
Era stato manipolato.

Finchè non era arrivata lei:
una prigioniera da scortare con massima attenzione.
Figlia del capo dei ribelli, moneta di scambio preziosa, affidata a lui, Kai Naganori, samurai esperto e leale, affinchè la tenesse nascosta durante le trattative. Legata e imbavagliata.
Un viaggio di dieci giorni che avrebbe cambiato per sempre la sua vita, aprendogli, finalmente, gli occhi... e il cuore.
Il fato volle, infatti, che lei si ammalasse. Una ferita infetta lo aveva costretto a un approccio diverso. Non poteva lasciarla morire. Era suo dovere curarla.
Il disprezzo provato per i traditori, lo aveva tenuto al sicuro dalle parole deliranti della carcerata, fino a quando non l'aveva sentita invocare quel nome.
Un nome che lui conosceva bene, quello del Generale incaricato della sua formazione, a cui andava tutta la sua stima. Quello di cui aveva preso il posto, qualche anno prima, quando ne era stato dichiarato l'eroico decesso in battaglia. Appena la febbre passò, decise d'interrogarla. Il suo nome era Mika Oishi. Il Generale a cui parlava, nel sonno agitato della malattia, era suo padre. Altro che morto! Era lui a capo dei ribelli.
Ribelli! Il termine aveva fatto ridere la prigioniera. Il padre aveva scoperto la verità. L'esercito che comandava, era al soldo di un dittatore spietato. Coloro che non riuscivano a pagare le tasse, venivano dichiarati parassiti. L'ordine: ucciderli.
A ogni parola pronunciata dalla prigioniera, rivedeva scene vissute, azioni compiute, ordini assolti: sterminare tutti i ribelli, nessun prigioniero, non interagire col nemico. E lui aveva sempre obbedito. La verità apparve nitida e devastante, come i corpi scarni, gli abiti logori e gli occhi imploranti delle sue vittime. Non era il buono, era un mostro!
"Non andare, ti prego!" Parole pronunciate come una preghiera, dopo averlo assolto da tutti i suoi peccati. Lui, però, non riusciva a perdonarsi. Doveva annientarli tutti. Era il solo modo per ottenere giustizia e fermare quel genocidio. Avrebbe eliminato la bestia partendo dalla testa. Conosceva la base nascosta sulla montagna. Sapeva quando si riunivano e di quante guardie disponevano. La sua presenza non avrebbe destato sospetti. Era un piano destinato al successo.
Eppure... aveva titubato, lasciandola.
Nessuno era mai entrato così profondamente nel suo cuore.
"Non andare, ti prego!" Le ultime parole d'amore.
Rimase dritto, fiero, immobile, davanti alla montagna, che ora era solo quello: una massa informe di roccia e terra, ricoperta di piante, abitata da animali.
I cadaveri che aveva lasciato sul suo cammino, non erano degni di sepoltura. Sarebbero diventati cibo per avvoltoi. Era la fine che meritavano e che meritava anche lui.
Le gambe divennero inferme. Aveva perso molto sangue. Non voleva morire con quella disperazione addosso.
Tornò con lo sguardo al monte. Nessun segreto, nessuna macchinazione, nessun piano omicida sarebbe più stato attuato. Avevano sottovalutato la sua intelligenza. Non era per stupidità che aveva obbedito, nè per sottomissione, ma per l'ideale in cui credeva ciecamente. Infondo, lo aveva persuaso Mika, i suoi valori erano giusti.
Poveri arroganti! Scambiare la sua fedeltà per stoltezza! Avevano pagato per questo e per averlo usato, come un'arma, contro il suo stesso popolo. Preferiva morire sapendo di aver riparato, almeno in parte, al male commesso. Desiderava la possibilità di riverdere, nella prossima vita, l'altra parte di sè, quella buona, gentile, compassionevole. Quella che lo aveva implorato di non andare, quella in cui risiedeva il suo cuore.
Con un sospiro raddrizzò le spalle, lasciò cadere la katana e chiese perdono. Al mondo, al popolo, a se stesso.
"Non andare, ti prego!" Quella voce, ora dolce e suadente, pareva esortarlo a vivere. Il pericolo era ormai passato. Mika sarebbe stata nel loro rifugio ad aspettarlo. Forse il suo seme aveva attecchito. Magari, in primavera, sarebbe diventato padre. Una parte di lui sarebbe comunque rimasta su quella terra. Un sorriso si aprì, suo malgrado, sul viso pallido, mentre un lacrima scendeva lenta e, come acido, gli scavava la guancia.
"Mika... perdonami" furono le prime e uniche parole uscite dalle sue labbra, in quelle due atroci settimane. Aveva fatto ciò che doveva. Le ginocchia si piegarono. Le mani strinsero la Wakizashi*.
La punta, affilata, premeva sotto l'ombelico. Lo sguardo fisso sulla montagna.
Era pronto.
Eppure, il suo ultimo pensiero lo portò a chiedersi se ne fosse valsa, davvero, la pena.

*Bushido: codice di condotta e stile di vita adottato dai samurai.

*Wakizashi: piccola spada chiamata " la guardiana dell'onore" con la quale il samurai compiva il rito del seppuku (suicidio), in caso di profonda sofferenza, disonore o ingiustizia.


  

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