Capitolo 28

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Peter salì le scale del suo palazzo con passi lenti, il rumore delle suole bagnate che risuonava tra le pareti silenziose. L'aria fredda del corridoio lo colpì, facendolo rabbrividire leggermente mentre si stringeva di più nel giubbotto. Era ancora umido per la pioggia e il gelo che sentiva non era solo fisico.

Ogni piano che saliva sembrava appesantirlo di più, come se il peso di quel ritorno fosse troppo per lui in quel momento. Tornare lì, in quel posto carico di ricordi, dopo una settimana in cui era riuscito a distaccarsi dalla solitudine e dalle ombre che avevano tormentato i suoi pensieri, lo faceva sentire come se stesse precipitando di nuovo in un abisso dal quale aveva faticato a uscire.

Quando finalmente raggiunse la porta del suo appartamento, Peter esitò. Rimase lì, con la chiave in mano, guardando il legno ormai consunto dell'ingresso. Quella porta era stata varcata centinaia di volte, ma mai con tanta riluttanza come quella sera. Sapeva cosa c'era dall'altra parte. Sapeva quali ricordi sarebbero riemersi, quali fantasmi avrebbe affrontato. Ma soprattutto, sapeva che aprire quella porta significava tornare alla sua vita di sempre, alla solitudine che aveva cercato di dimenticare durante quella settimana con Wade.

Infine, con un respiro profondo, girò la chiave nella serratura. Il clic della porta sembrò più forte del normale nel silenzio della notte. Entrò e richiuse la porta dietro di sé con un movimento automatico, quasi distratto. L'appartamento era esattamente come l'aveva lasciato: il divano coperto da una vecchia coperta, le piante che, sorprendentemente, non erano ancora morte di sete, e il silenzio assoluto, che sembrava soffocare ogni angolo della stanza.

Ma non era il disordine o la tranquillità a mettergli addosso un senso di oppressione. Erano le fotografie.

Peter le vide subito, sparse ovunque come piccoli frammenti di una vita che sembrava così lontana. Fotografie di lui e di zia May, di lui e di Ned, e ovviamente, di Gwen. La sua immagine, con quel sorriso luminoso e il modo in cui i suoi occhi sembravano sempre illuminare la stanza, era dappertutto: sul comò, sui muri, su quella mensola che non aveva mai avuto il coraggio di rimuovere.

Si avvicinò a una delle foto incorniciate sopra il caminetto spento. Era una vecchia immagine, scattata quando tutto sembrava ancora possibile. Gwen rideva, con i capelli mossi dal vento, mentre lui la guardava con quell'espressione di pura felicità che non era più riuscito a replicare dopo la sua morte.

Peter lasciò che le dita sfiorassero il bordo della cornice, il petto che si stringeva mentre il dolore familiare si riaffacciava con tutta la sua forza. La nostalgia era come una lama affilata che scavava dentro di lui, rendendo ogni respiro un atto di volontà.

Non riusciva a smettere di pensare a lei. A ciò che avrebbe potuto essere. Tornare lì significava affrontare tutto ciò da cui era scappato. La colpa, il rimpianto. Ogni angolo di quel piccolo appartamento era intriso del suo ricordo, e Peter sentiva di star sprofondando di nuovo nella disperazione che aveva faticato tanto a lasciarsi alle spalle.

Si sedette sul divano, la testa tra le mani, cercando di raccogliere i pezzi della sua mente. La settimana passata aveva illuminato una parte di lui che credeva persa, ma ora si trovava di nuovo nell'oscurità. Forse Wade aveva ragione, pensò. Forse ci voleva davvero qualcuno che gli rompesse le scatole di continuo, che lo distraesse dal vortice di pensieri autodistruttivi in cui cadeva così facilmente.

In quel momento il suo telefono vibrò leggermente, spezzando il silenzio. Peter lo prese dal tavolino, aspettandosi l'ennesimo aggiornamento della polizia o una chiamata dal Daily Bugle. Ma non era niente di tutto ciò. Era un messaggio.

"Ehi, Parker. Lo so che non vuoi ammetterlo, ma sei il più grande rompiscatole che abbia mai conosciuto. E, sorpresa sorpresa, a quanto pare mi piace. Quindi, prendi fiato. Lotta contro quei fantasmi. Ma sappi che non hai scampo. Ci vediamo presto. Siamo una squadra, anche quando facciamo schifo ad ammetterlo. Non sarai solo, promesso. – Wade."

Peter non poté fare a meno di sorridere, anche se il nodo in gola era ancora lì. Wade era... Wade. Poteva essere volgare, fastidioso, decisamente fuori di testa, ma sapeva come tirarlo fuori dal buco nero in cui si stava infilando. Forse lo faceva senza nemmeno rendersene conto. Forse era proprio la sua natura a spezzare quel muro di solitudine che Peter si era costruito attorno.

Rilesse il messaggio un paio di volte, sentendo un calore crescere dentro di lui. Era solo un messaggio, ma significava che non era completamente abbandonato a se stesso. Non questa volta. Aveva Wade. Un'ancora, una luce — non importa quanto stramba e inaspettata potesse essere.

Si sdraiò sul divano, lasciando che gli occhi si chiudessero mentre stringeva il telefono tra le mani, sentendo la pesantezza della giornata scivolare via lentamente. Sapeva che il giorno dopo avrebbe dovuto affrontare di nuovo le sue responsabilità, le sue battaglie, e le ombre che si annidavano nei suoi ricordi. Ma ora non aveva la stessa paura di prima. C'era qualcosa di diverso, qualcosa che Wade gli aveva lasciato: la sensazione che, per quanto il mondo potesse diventare buio, ci sarebbe stato sempre qualcuno pronto a riportarlo alla luce.

E con quel pensiero, Peter si addormentò, un sorriso appena accennato che si formava sulle sue labbra, mentre il rumore della pioggia fuori faceva da colonna sonora ai suoi sogni.

Silent Treatment // SpideypoolDove le storie prendono vita. Scoprilo ora