C'è un pesce africano, un astuto predatore, che giace su di un fianco, sul fondo sabbioso; finge di essere morto, irrigidendo totalmente il corpo per attrarre le prede.
Continua a rimanere immobile, anche quando esse cominciano a strappargli brandelli di carne, fino a che, ormai vicine e senza paura, le ghermisce con un guizzo improvviso e le divora.
Si immaginava così, Jacob, come un predatore che aspetta in silenzio l'istante propizio per sferrare l'attacco.
Giaceva disteso sulla pietra fredda e viscida della sua cella, paziente come non era mai stato; gli occhi vigili dietro le palpebre; il respiro regolare di chi dorme e nella testa i rintocchi dei minuti che lo separavano dalla più grande sfida che la vita gli avesse messo contro.
Non era più lupo, non aveva denti e zampe possenti, solo povere braccia fiaccate dalla prigionia, vene languide invase dai sedativi e come sola arma una vecchia tazza di metallo scrostato. Ma il cervello rimaneva vigile nella nebbia, deciso a trovare la via di uscita da quell'inferno in terra, deciso a riprendersi di nuovo dentro le braccia la donna che amava, a poggiarle ancora l'orecchio attento sul ventre per sentire il battito di due cuori, uno piccolo e veloce, l'altro lento e ritmato.
Chissà quanto era cresciuto quel ventre e quanto i fianchi; come erano diventati i suoi seni, pronti a nutrire la nuova esistenza che le scalpitava dentro affamata.
Ebbe voglia di lei, dei suoi seni, della carne, della bocca e di tutto il suo corpo nuovo e morbido attorcigliato attorno al proprio.
La desiderò come aria fresca del mattino, come respiro e acqua, cibo e sonno dopo aver patito. La desiderò come un condannato a morte, la vita.
Strinse i denti dietro le labbra screpolate e ispirò: il ricordo del suo odore, del colore fulvo dei capelli scarmigliati sul viso e la dolcezza nivea dell'incarnato lo riempì di una forza antica e sovrannaturale, sedata e maltrattata dalla prigionia, eppure ancora vivida e all'erta. Gli tese i muscoli, alleviò stanchezza e paura e, attraverso le vene, come sangue, raggiunse ogni spigolo del corpo.
Era nato per Renesmee, per amarla, per toccarla, baciarla ed entrarle dentro. Lo aveva stabilito il destino o l'imprinting o la loro natura o qualcuno che non tirava i dadi a caso, ma che giocava al posto degli uomini per mettere le cose ciascuna nell'ordine naturale dell'universo.
Era nato per dare la vita a quel bambino miracoloso, per sostenerlo in ogni suo passo e né i demoni della notte che lo imprigionavano, né qualunque altra beffa della vita gli avrebbero impedito di essere padre!
Il cigolio della grande porta di ferro che chiudeva il cunicolo delle segrete catturò la sua attenzione che, fino a quel momento, aveva indirizzato verso l'amore che lo teneva in vita.
Il momento stava arrivando.
Serrò gli occhi e strinse più forte la presa intorno alla sua arma di salvezza, pronto a scattare.
Era l'ora in cui i suoi due aguzzini gli portavano il cibo.
Uno entrò nella cella semi buia, lasciandosi la cancellata aperta alle spalle, mentre l'altro rimase nel corridoio. Il primo si chinò per lasciare sul pavimento la ciotola con la brodaglia scura e, quando fu di nuovo dritto di spalle, Jacob gli saltò al collo, i muscoli dell'avambraccio gli serrarono la gola, impedendogli di respirare, mentre gli infilava punta della vecchia tazza nel fianco destro.Un lamento roco si diffuse nella stanza, come quello di una bestia ferita, mentre il metallo affondava in profondità e poi ne usciva, sfrangiando la pelle e le fasce muscolari, la carne e le arterie.
Solo quando la sua resistenza si affievolì fino ad estinguersi, Jacob allentò la stretta alla gola e l'uomo ricadde sulle proprie ginocchia e poi sul pavimento, con un tonfo sordo che richiamò l'attenzione dell'altro che fino a quel momento non si era accorto di nulla.
Fu soltanto un attimo, il tempo di un respiro.
Jacob gli si scagliò addosso, spingendolo contro il muro del corridoio.
La torcia che teneva in una mano roteò in aria, creando un gioco intermittente di luce e buio; il cranio dell'uomo batté sulla pietra viva, lasciandolo intontito e rendendo sconnesso ogni tentativo di divincolarsi.
Jacob gli tenne premuta la mano contro la faccia, con tutta la forza che gli arrivava dalla sua determinazione, e quando la capacità di respirare fu ridotta a un fiato, con una decisa pressione dell'arma, gli perforò il costato, facendolo crollare al suolo senza vita.Jacob inspirò forte, allentò la presa delle dita intorno alla tazza, lasciandola cadere, e gettò la testa all'indietro; il tremore delle mani si attutiva man mano che i secondi passavano, ma il senso di nausea per l'odore del sangue dei soli esseri umani che avesse mai ucciso, gli inondava la bocca di un rigurgito acido.
Si piegò su sé stesso tentando di trattenerlo: non aveva né il tempo di sentirsi male, né quello di pentirsi.
Ad un tratto, non era più il subdolo predatore che inganna la preda, solo l'animale spaventato che con l'astuzia si salva la vita.
Ripeté nella testa, come un mantra incoraggiante, necessario a non cadere in ginocchio e mollare, che c'era una sola via per tornare a casa ed era macchiata di sangue.Così, mettendo nell'angolo più lontano della coscienza rimorsi e indecisioni, frugò nelle tasche dell'uomo riverso nella pozza del suo stesso sangue, vi trovò le chiavi per uscire dai sotterranei e, con le mani sporche, i vestiti e la pelle imbrattati, si diresse verso l'uscita.
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Questo aggiornamento è arrivato presto, eh?
Ho avuto un po' di tempo libero e mi ci sono dedicata.
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