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Derek aveva tre anni quando passeggiava allegramente nel cortile sul retro della casa. Adorava quello spazio, recintato da una palizzata di legno chiaro che lo separava dal resto del mondo, gli alberi che quasi oscuravano la luce del sole e l'azzurro del cielo. Non appena poteva se ne andava zompettanto a passare il suo tempo giocando con le farfalle e con i piccoli insettini che stanziavano continuamente sull'erba bassa del prato. Avrebbe potuto passare ore ed ore ad osservare i loro movimenti, tentando di farli posare sulle sue dita tozze e paffute che sperava di far sembrare fili d'erba, ma erano lontane dall'esserlo, per cui, la maggior parte delle volte, quelli scappavano da lui, terrorizzati dall'intrusione che il ragazzo rappresentava nelle loro vite. Così il bimbo si fermava a osservarli da lontano, spesso per ore fermo nella stessa posizione. Quel giorno c'era un forte odore di erba appena tagliata, la sua inimitabile e fantastica madre doveva essersene occupata poco, e lui adorava stare in quel posto quando l'erba era fresca e i piccoli animaletti che la abitavano dovevano abituarsi alla nuova sistemazione. Ma c'era un'altro strano odore che rendeva l'atmosfera più tetra, quando Derek entrò il quel prato, e il bimbo non faticò a scoprire cosa fosse. Quando lanciò un urlo, sua madre accorse velocemente e lo sollevò, prendendolo in braccio, ciò permise al ragazzo di guardare dall'alto, con sguardo velato dalle lacrime, il cadavere di un grande corvo nero come la pece, assalito dalle mosche che si stavano cibando della sua carcassa.

Questa volta aveva sei anni, ed era in macchina con sua madre e suo padre, stavano andando ad accompagnare il bambino al suo primo giorno di scuola, per la prima elementare. Derek era terrorizzato, piangeva e si stringeva al sedile della madre, che, voltata verso di lui, gli stava accarezzando la testa, sulla quale portava un cappellino di una squadra indefinita di football. Il tragitto da casa a scuola era breve,  l'aria condizionata fredda era l'unico sollievo per i passeggeri e quando lui scese dalla macchina, inondato dall'aria ancora afosa di settembre, vide, nel cortile della scuola, tanti bambini come lui giocare e divertirsi, così si fece coraggio, tirò su col naso asciugandosi le lacrime e strinse la mano della madre, che gli sussurrò parole rassicuranti mentre oltrepassavano quel cancello che tanto lo spaventava.

Un'altro ricordo che aveva era della terza elementare. Si era ormai ambientato nella sua classe, e le maestre erano dolci e lo trattavano nel migliore dei modi, solamente che l'ormai quasi cresciuto Derek, che aveva otto anni, non faceva altro che farle esasperare mettendo a dura prova la loro pazienza, attuando scorribande nei bagni della scuola e facendo scherzi a tutti con il suo gruppo di amici. Tra questi c'era la sua fidanzatina di quel tempo, lei lo adorava e lo vedeva come un idolo, letteralmente cadeva ai suoi piedi, e il magnanimo ragazzino, a cui piaceva quella bambina così indifesa, l'aveva accolta sotto la sua protezione. Era l'unica a cui avesse mai mostrato affetto, la abbracciava ogni mattina e una volta si erano persino dati un bacio a stampo prima che i genitori li avessero visti e separati. Non ricordava il nome della bambina, perchè non erano stati insieme per molto, ma era stata comunque una parte importante della sua esperienza alle elementari, e quando ricevette la notizia che la ragazzina si doveva trasferire, pianse tutte le sue lacrime urlando e scalciando, perchè non avrebbe mai voluto che la portassero via da lui. Nonostante fosse comunque troppo presto per Derek, perchè si innamorasse, quella fu la prima volta che soffrì per una persona del genere femminile, nel tempo aveva dimenticato il nome, ma il ricordo di lei gli era sempre rimasto.

In prima media, il distacco dalle elementari era così forte che sulle prime un Derek ormai undicenne si sentì spaesato. Aveva preso ormai coscienza di sè e del suo corpo, aveva sviluppato, era cresciuto, ed era carino, per non dire bello. Era alto, praticava basket, il suo viso ospitava dei bellissimi occhi marroni, con uno sguardo spavaldo e quasi seducente, labbra perfette, ed era contornato da dei perfetti capelli neri e un corti, che ricadevano in un piccolo ciuffo, sulla fronte. Il suo sorriso faceva cadere ai suoi piedi tutte le ragazze, ma nonostante questo il ragazzo aveva continuato a dedicarsi quasi del tutto allo sport e ai suoi amici: sognava di vincere il torneo di NBA e di finire su tutti i giornali, sognava di diventare famoso. A quel tempo, sognare gli era ancora concesso. Ricordava in particolare la sua prima sconfitta, non la prima vittoria. La sconfitta era stata devastante, aveva pianto dalla frustrazione, perché detestava perdere. I suoi compagni di squadra, ormai come fratelli, lo seguivano come un leader e detestava averli delusi in quel modo, ma loro lo sostennero. Fu poi quando tornò a casa, che imparò la vera lezione. Suo padre non era potuto essere alla partita per questioni di lavoro, ma aveva ugualmente qualcosa da dire a suo figlio dopo quella sconfitta, quando lui si presentò a tavola quella sera.
"Figliolo, tu non hai perso. Tu non perdi mai, o vinci, oppure impari".
E fu quel giorno che Derek decise che quello sarebbe stato il suo motto per il resto della sua vita.

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