Capitolo 44

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(Pov's Alan)

L'amore arriva presto, ma sparisce così in fretta. Sto cercando di farmene una ragione, di credere che nel mondo possa esistere una donna perfetta per un tipo problematico come me, ma davanti a me non vedo altro che lei. Mi piacerebbe sperare che una cura a questo male possa essere stata inventata. Quasi tutto aveva soluzione, tranne il cancro e l'amore. La prima consumava logorava e faceva marcire il corpo in pochi giorni dandole quella pace e serenità che tanto si desiderava in certi casi, la seconda era una malattia immortale, ti consumava ma non ti deteriorava.
Quanti di noi avremmo voluto morire, smettere di lottare, ma poi qualcuno di speciale esordiva nella scena e cambiava totalmente il nostro cammino in meglio.
Il problema si presentava quando la persona che doveva allievare il tuo male, era la causa principale dell'aggravamento delle tue condizioni.

«Ti va una birra, Alan?» mi chiesi senza nemmeno badare al fatto che nella mia casa non ci fosse nessuno. Ero comodamente abbandonato sul divano dinanzi a una televisione a led spenta, e osservavo il buio che circondava ogni angolo del mio appartamento, senza nemmeno avere la forza per accendere la luce artificiale.
Voltai il capo verso la porta scorrevole che dava accesso a uno striminzito balconcino, ed era l'unico spiraglio libero da cui poteva infiltrarsi la fioca luce lunare creando un'insolita atmosfera romantica. Lo sarebbe anche stata, ma al momento l'unico sentimento che albergava in me era la depressione.
In quel cielo sereno, in quella notte sgombra di ogni perturbazione con la luna nel pieno della sua giovinezza io ero l'unica nota stonata della performance. Mi sollevai con pigrizia, e con una falcata giunsi al cospetto dell'anta grigio metallizzata del frigorifero. La aprii e ispezionai con noncuranza il suo contenuto. Avevo dimenticato di fare la spesa e gli unici ingredienti al momento presenti erano una bottiglia di latte, un cestino di frutta, un pezzo di fetido gorgonzola, e negli ultimi scomparti, due preziose bottiglie di birra. Ne presi una, e col cavatappi, la stappai stando attento a non farla scoppiare.
La appoggiai sulla tavola, e ne versai un po' nel bicchiere.
Lo sollevai e feci un brindisi con sarcasmo per festeggiare la mia sconfitta in amore, poi tracannai attimo dopo attimo ogni piccola goccia intrappolata nel fondo.
Speravo che quella sostanza amarognala potesse avere il potere di annullare ogni mio pensiero, cancellare il suo nome dalla mia testa, ma sopratutto dal mio cuore. Più tracannavo, più ingoiavo forzatamente tutto il contenuto della prima bottiglia più mi sentivo leggero, forte, in grado di spaccare ogni cosa, in grado di ancorarmi alle mie speranze senza essere sostenuto da nessuno come avevo sempre fatto. Bevevo per necessità. Bevevo per disintegrare, bruciare gli ultimi miei ricordi, anche se in fondo non sarebbe servito a molto annegare i dispiaceri nell'alcol, e ritrovarsi la mattina successiva a respingere lo stesso nemico con una forza, che doveva essere almeno il doppio, di quella prima utilizzata. Faticare per osteggiare l'emicrania, la stanchezza e la confusione della serata passata ad ubriacarsi.
Riposi il bicchiere nel lavello e la bottiglia lontano dal mio campo visivo per allontanare del tutto la tentazione. Mi accomodai sulla sedia, e poggiai la testa frastornata contro la superficie del tavolo.
Volevo solo riposare. Chiusi gli occhi, ma nel vuoto della stanza l'assordante trillo del campanello mi fece balzare in piedi.
In una piccola parte della mia testa l'immagine di io che sorridevo come un ebete mentre aprivo la porta con lei che mi sorrideva e mi si lanciava contro mi stava ossessionando, mentre andavo verso la porta d'ingresso.
Gli ultimi passi poi mi sarei trovato davanti lei, con i suoi capelli neri naturali, i suoi occhi verdi che luccicavano nell'oscuro corridoio del settimo piano, il suo sorriso sincero che trionfava sulle labbra. Anche solo pensarlo, anche solo ipotizzare che quella porta nascondeva l'inizio del mio lieto fine mi dilatava il cuore così tanto che pareva volesse esplodere.
Lo sentivo in fibrillazione pulsarmi nel petto, nel collo, nelle vene e nelle orecchie. Era tornato a vivere, coi suoi battiti irregolari.
«Chi è?» Fissai lo spioncino e inquadrai solo dei grossi e robusti pettorali maschili. Non era lei.
Alla delusione, la caduta delle ultime speranze di vita subentrò la curiosità. Lo spioncino mi mostrò una cravatta blu, una giacca, un pantalone, un volto quadrato.
Spalancai la porta e un clack metallico precedette la vista dello sconosciuto fermo all'uscio.
«Chi cercate?» gli chiesi alzando un cipiglio: «Non accetto promozioni di qualsivoglia genere. Ne ho fin sopra le scatole.»
«Non è questa la mia intenzione.» mi rispose con voce ferma e profonda. I suoi occhi erano coperti, aveva un volto dalla forma insolitamente quadrata e una mascella pronunciata per la barbetta appena accennata.
«Ah sì? Allora cosa fate qui?»
«Sono venuto.» la cosa strana era che il tipo indossasse dei buffi occhiali da sole dalle grosse lenti scure. Probabilmente non si era reso conto che era in realtà notte fonda e mi stava disturbando inutilmente. Se li tolse, mostrando degli occhi grigi. «Per ritrovare il mio migliore amico
«Cosa?»
«È questo Street View, 209. Minnesota, USA vero?»
Mi appoggiai al cornicione con il gomito. «Sì.»
«Cerco un certo Alan Taylor
Cercava me, fu il mio primo pensiero, mentre scorrevo il mio sguardo dalle sue scarpe traslucide fino ai capelli gelati castano chiaro. Forse aveva sbagliato persona.. capitava quando qualcuno alzava un po' troppo il gomito o forse era uno scherzo e in quel caso era davvero inopportuno disturbare le persone nel bel mezzo della notte senza una scusa valida, sopratutto uno impegnato a piangersi addosso come un povero scemo.
«Conosce questo Alan?» ripetè mostrandosi spazientito.
Si strinse i fini capelli nel pugno.
«È da stamani che cerco Alan.» mi informò ignorando che si trovasse dinanzi all'oggetto della sua disperata ricerca: «Sono riuscito a trovare il suo indirizzo attuale visto che prima viveva in Wisconsin con sua madre, la signora Allison Scott.»
«Sono io.» gli risposi.
Lui allargò la bocca in un sorriso soddisfatto, e si fiondò contro il mio corpo abbracciandomi come se fosse un amico di vecchia data.
Mi diede forti pacche sulla scapola. «Ehi amico, da quanto tempo!» disse con tono spinto stritolandomi in un nuovo abbraccio commosso.
Forse per effetto della birra io non avevo ancora ripescato dal passato quel viso che mi appariva famigliare. Il mio corpo restava inerte e immobile quando il suo mi si avvinghiava contro a braccia aperte. «Mamma, quanto sei cambiato! Ti ricordavo più "affettuoso".» mi disse mentre slegava il suo petto dal mio.
«Scusa, ma al momento non-» mi interruppe. «Non ti ricordi di me? Non può essere possibile!»
E invece lo era quando per troppo tempo una persona usciva dalla tua vita ritornandovi per portare scompiglio.
Scossi il capo. Il mal di testa cominciava a pressarmi.
«Mh.. Ti ricordi la psicologa?»
Annuì.
«Bene, io sono il figlio: Enric
Un lampo di luce rischiarò in un nanosecondo la confusione, e finalmente riuscii a collegare la persona con il nome.
«Enric? - poi strillai convinto - Enric! Non ci posso credere.»
Lo abbracciai. Lui ricambiò.
«Neanche io Al. Santo cielo, ti sei fatto più alto!» esclamò esaminando la mia altezza prodigiosa, che raggiungeva lo stipite della porta senza problemi.
«Mi fa piacere che finalmente tu mi abbia riconosciuto.»
«Scusa, solo che non ti vedevo da molto quindi non sapevo che ti fossi cresciuto la barba.»
«Direi che è da poco che ce l'ho e ho dovuto combattere perché mamma accettasse il cambiamento.» si lisciò con una mano la peluria al di sotto del mento.
«A te come va la vita, amico?»
«Non posso lamentarmi.» mi spostai e gli feci cenno con una mano di abbandonare l'uscio ed entrare in casa per chiacchierare, cosa che non facevamo da tempo.
«Perché no? Mi farebbe bene parlare con te amico. È da tempo immemore che non lo facciamo.» superò l'entrata e lo guidai fino al divano, dove lui vi si abbandonò stremato. «Ti offro qualcosa?»
Andai verso il mobiletto dove avevo lasciato incustodito la bottiglia mezza piena di birra.
«Per favore. Ho la gola secca!»
«Acqua?»
«Ma ti pare che vado a bere acqua! No, birra per favore.» fece.
Chiusi l'anta del frigo intenzionato a sfoggiare la bottiglietta dell'acqua minerale, ma dovetti abbandonare l'iniziativa tornando a prendere la prima e la seconda bottiglia di mezzo litro dal frigo.
Recuperai due calici di vetro, e versai il contenuto fino al bordo dorato che salì man mano in schiuma. Enric prese uno dei due bicchieri, e io feci lo stesso accomodandomi sul divano dopo aver acceso la luce.
Enric tracannò avidamente.
«Ottimo.» la sua lingua schioccò, le sue papille gustative ringraziarono: «Mi mancava la birra. Non era lo stesso berla senza Alan Taylor.» e buttò giù altro.
«Per me vale lo stesso, Enric.»
Ruotai il bicchiere come un esperto sommelier quando deve giudicare i diversi vini ed evidenziarne le annate e i sapori.
«Sono successe tante cose.»
Guardai il liquido giallo e schiumoso che si agitava piano e andava a scontrarsi con le pareti delicate del vetro.
«Tante cose
Enric mi osservò. Riprese a bere.
«Bene, che cosa mi sono perso? Avanti, voglio un riepilogo generale.»
Sorrisi. «La storia è lunga.»
«Non c'è problema.» mi assicurò inclinando la testa, mentre l'escrescenza del pomo andava avanti e indietro. «Abbiamo tutto il tempo del mondo. Coraggio, inizia.»
Posò il bicchiere vuoto sul tavolino basso e accavallò le gambe per prestare attenzione come un bimbo alla storia.
«Beh, non c'è molto da dire.»
«Oh no.. certo che c'è. Tipo perché non vivi più con Allison. Tu e lei avete litigato?»
Mi portai il bordo del bicchiere alla bocca, umettandola di quel liquido amarognolo. «No.» abbassai il bicchiere riponendolo vicino a quello di Enric.
«Ora lavoro come insegnante al Mc Nally Smith, il college musicale del Minnesota. E purtroppo non posso sempre stare in Wisconsin per ragioni di distanze troppo lunghe, ma io e mamma non abbiamo litigato. Non ce lo possiamo permettere, visto che lei è malata.»
Enric sgranò gli occhi.
«Malata? Come!»
«Ha il cancro al cervello, ma le metastasi si sono estese un po' dappertutto quindi non le resta molto da vivere.»
«Capisco.» mormorò, incassando lo sguardo dispiaciuto: «Non lo sapevo Alan. Mi dispiace per te.»
Feci un veloce cenno con la mano.
«Non preoccuparti. Non era previsto e poi queste cose non si prevedono, si affrontano.»
«Ma tua madre come sta adesso?»
«Aspetta con pazienza la sua fine.»
«E di Austin sai qualcosa?» mi domandò, sfiorando un tasto fin troppo dolente.
Arricciai il naso. «Non parlarmi di quel mostro travestito di uomo
«Che ti ha fatto?»
«Niente. È meschino, tutto qui.»
«Perché?»
«Lui è sempre stato corrotto. Non fa differenze nelle sue azioni. Pretendeva di salvare la sua faccia a discapito mio. Voleva che rilevassi il posto di direttore della sua Taylor Corporation
«E tu?»
«Ho rifiutato.»
«Poteva essere un impiego prestigioso e poi, pensaci bene, se a tua madre servono soldi per curarsi quel lavoro ti aiuterebbe.»
«Tutto fuorché quello.» congiunsi le mani piegando il busto. «Non scenderò a compromessi con l'uomo che mi ha rovinato la vita. Neanche se me lo chiedesse il presidente degli Stati Uniti.»
«Eppure dovresti riflettere su questa grande svolta lavorativa.»
«Riflettere?» mi issai con nervosismo in piedi camminando nella stanza. «Non c'è nulla per cui io debba pensare! Potrebbe pure darmi ricchezza, prestigio.. ma sono comunque soldi da mani imbroglioni.»
Enric mi fissò.
«Secondo me rifiutare sarebbe come essere stupidi. Allontanare da te l'opportunità di avere una vita più dignitosa di quella che adesso vivi, facendo un lavoro un po' tirato per le responsabilità
«Lo stesso uomo, che ora vuole salvare il suo futuro, anni prima ha abbandonato me e mia madre nella povertà e nei debiti. Io dovrei accettare un lavoro da colui che più odio?»
«Se vuoi salvare tua madre sì. Come amico e come psicologo.»
«Purtroppo il problema non è questa proposta disdicevole.» continuai, prendendo posto di nuovo affianco a lui.
Enric mi fissò per una manciata di secondi. Presi un profondo respiro e aprii un nuovo discorso, che mi premeva realmente più del primo.
«Mi sono innamorato
La parola innamorato era ancora troppo precipitosa, ma era quello che provava il mio cuore quando l'argomento amore, vita sentimentale, saltava fuori.
Enric scivolò verso il ciglio del divano. «Di chi?»
Sorrisi sornione, gonfiando il petto e presi a tracannare altre birra per compensare questo nuovo squilibrio emotivo.
«Sì, ma non sono sicuro di essere veramente preso da lei, anche perché un giorno fa Elly-»
«Hèrman?»
«Sì, lei Enric.» Sospirai. - «Ha praticamente portato scompiglio nella mia nuova relazione.»
Enric si versò altra birra.
«Sì, ma chi è la persona fortunata che ha il piacere e l'onore di essere fidanzata con Alan?» ripetè sorseggiando dal bicchiere.
«Lo voglio sapere!» esclamò, poggiando il bicchiere pieno sulla coscia destra.
«È una mia alunna del corso.»
Enric mi squadrò inebetito dalla rivelazione. «Ma sei serio?»
«Serissimo. Sono innamorato di una ragazzina di otto anni più piccola di me e non ho vergogna.»
«Non è scandaloso?» mi chiese.
«No. A me non interessa l'opinione degli altri, né tanto meno sarò chiamato pedofilo perché amo una ragazza più piccola, che è mia alunna. Ma con la visita di Elly lei crede che io l'abbia tradita. Ho provato pure a spiegarglielo, ma lei non mi crede e non so più cosa fare per riconquistare la sua fiducia.» conclusi, mentre il mio vecchio compagno del liceo mi esaminava incredulo con gli occhi dilatati. «Tu cosa proponi?»
«Oh.. beh, secondo me, pure se porti fatti veri che dimostrano che tu non hai fatto nulla con Elly.. lei non ti crederà mai perché è ancora piccola e deve maturare, ma se ti ama non esiterà a perdonarti.»
«Se non mi perdona?»
«Non ti ama Alan.»
Sbuffai mentre avvertii il cellulare vibrare e illuminarsi su un mobile del corridoio, di fronte a una foto che raffigurava me e mia madre nel nostro ultimo campeggio prima che scoprissimo il cancro.

Una delle mie foto preferite.

Mi alzai dal divano, e raggiunsi l'aggeggio prendendolo tra le mani. Lessi il numero, ma era senza nome, senza niente e inoltre era un po' preoccupante una telefonata da numero mai registrato alle undici e trenta di notte. Risposi titubante: «Pronto?»

Faticosamente ascoltai il flusso incontrollabile delle parole dell'altro capo della cornetta, mentre restavo immobile dinanzi alla foto mia e di mia madre.

Una voce a tratti lenta, a tratti velocissima come un telegrafo poi il timbro basso, mellifluo alla fine singhiozzante. Voci, troppe voci da stare a sentire. Voci confuse, voci che si allontanavano e si riavvicinavano, e rimaneva fissa solo un'unica raccapricciante voce disperata, un grido, un sussurro quasi, di aiuto.
«Pronto! Chi è?» domandai iniziando a sospettare il peggio.
L'interlocutore mi diede una risposta. Una risposta che mi assestò un pugno al centro dell'addome, che solo figurativamente mi fece precipitare sull'appoggio insicuro delle ginocchia a contatto col pavimento. «No. Non può essere.» più che gridare mormorai al tipo al telefono in modo che non avvolarasse le mie spaventose supposizioni. Alla risposta del tipo che conoscevo fin troppo bene, che non si nascondeva dietro fasulle bugie come quelle che ti inculcavano i medici per farti stare tranquillo circa le condizioni dei tuoi familiari ricoverati, ma che ti diceva senza ulteriore perdita di tempo se potevi sperare in un miracolo o atterrare l'ascia del combattimento per la prossima sconfitta. L'esito non fu quello sperato. Le lacrime cominciarono a scivolare silenziose sulle gote, mentre mi appoggiavo con le mani sul mobiletto. La fotografia si ribaltò come posseduta e cadde, toccò il pavimento e si ruppe finendo in mille pezzi.
Scintillio di schegge di vetro.
La cornice immobile sul pavimento. La foto ai miei piedi, che conservava la semplicità di quella giovane donna, forte, guerriera che mi aveva dato ciò di cui avevo avuto sempre bisogno, senza farmi mancare niente.
La stessa donna che avrei ricordato nella mia memoria e, che quella notte aveva scritto la parola fine.

«Mia madre... era morta
Ora ero morto anche io con lei.

***

Alan.. sta per attraversare un momento difficile della sua vita come avete appena letto. Sua madre è morta, adesso lui è solo, Sofia non c'è.

Cosa succederà ad Alan a questo punto del libro?

Scopritelo nei prossimi aggiornamenti.

Vi saluto e vi lascio con questo bruttissimo evento, funesto direi... con la speranza che lo leggerete e mi darete qualche stellina e un vostro commento.
Intanto Buona Nottata :)

Love

Sei la mia chiave di violino (Vol.1) [IN REVISIONE]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora