[Pov's Tania]
In quei momenti la mia vita mi era passata dinanzi agli occhi come il flash di una fotocamera durato pochi secondi. Credevo che non sarebbe mai finito, che lui avrebbe continuato ad infierire su di me come una bestia nonostante io avessi cercato di spingerlo via da me, di urlargli contro che era un bastardo, di divincolarmi da quella posizione con le poche forze che mi erano rimaste. Alla fine però non ci ero riuscita. Lasciai che le cose andassero come aveva deciso il destino covando la speranza che telepaticamente la mia testa avrebbe inviato un messaggio in quella di Josh e che lui sarebbe corso a salvarmi da quel mostro. Ma ciò rimase solo un desiderio che morì nell'istante in cui quel mostro concluse la sua pratica erotica inculcandomi nel corpo quella cosa viscida che mi faceva ribrezzo. Ogni anfratto della mia anima andò in frantumi. Ogni tentativo di evitarlo, con i calci, i pugni sferrati contro il suo petto, con le grida disperate ovattate dal di fuori dai vetri scuri e spessi, e nell'oscurità del veicolo dalle lacrime che scivolavano sul volto, le suppliche che sgusciavano via dalle mie labbra prive di ossigeno.
Non era servito a nulla.
Alla fine aveva raggiunto il suo ignobile scopo.
Si spostò da me lasciandomi svuotata e tornò al suo posto. Il mio corpo avrebbe voluto fuggire, fuggire via da lui, ma restava attaccato al sedile anteriore con la cintura allacciata. Incosciamente immaginavo di camminare a piedi scalzi su un filo protratto dalla luce all'oscurità, una luce che si stava affievolendo mentre trionfava il buio che avvolgeva ogni minimo dettaglio di quel posto. Iniziavo poi a correre, mentre il filo lentamente avanzava seminando la felicità alle mie spalle. Il nastro finì per convergere al centro.
Di lì non si poteva più andare, era come un trampolino verso quel mare burrascoso che accoglieva qualche anima che veniva trascinata dalla corrente, lontana dalla salvezza, e alla fine sommersa dalle acque scendeva di sotto e non riaffiorava più. C'era una forza che ti spingeva a gettarti nel vuoto per annegare nei problemi che ti portavi nel petto come un grosso macigno, e anche se cercavi di resistere ogni sicurezza ti abbandonava. Avrei voluto immergermi a capofitto in quella massa acquosa nera come la pece ed abbandonarmi completamente nel dolce moto delle ondose che si infrangevano contro gli scogli. Il mio corpo lo avrebbe voluto, ma la mia mente no. Restava in piedi e si allontanava, volava via con la leggerenza di una piuma, verso un posto completamente diverso con il sole che accarezzava e illuminava ogni oggetto intorno a sé e dove non c'era quella figura rivoltante che stonava con quella maestosa visione. La figura minacciosa che aveva giocato con il mio corpo come con un pezzo di cristallo fragile, in cui si formavano crepe al suo interno.
Il mio corpo era martoriato dalle cicatrici che ancora versavano sangue e che anche con il mio sforzo non riuscivano a rimarginarsi. Ci voleva qualcuno che lo facesse per me, e in una piccola parte di me stessa immaginavo che quel qualcuno avrebbe potuto essere Josh Watson, ma poi tornavo ad essere obiettiva e scacciavo via dalla mia testa questo pensiero.
Non mi sarei mai mostrata debole dinanzi a un cretino.
Quando mi toccavo si materializzava sulla mia retina quei momenti prima di lotta, di possesso, di erotismo, e mi vergognavo di me stessa, di non essere riuscita a fermarlo, di essere rimasta inerte perché potesse fare i comodi suoi, e credevo che se lo avrebbe fatto una seconda volta non avrei fatto nulla per impedirglielo perché avrebbe soffocato i miei gemiti di paura, le mie lacrime, la mia debole resistenza, provocandomi altri segni, altri lividi che non avrei sopportato.
Avrei squartato tessuto dopo tessuto, pelle dopo pelle, pur di estirparne il suo lurido profumo, il suo lurido dito che ancora percepivo arrampicarsi sulle mie gambe, la sua bocca umettata di saliva che mi mordeva il collo e mi lasciava altri segni tangibili della sua dominanza; aveva concluso quando liberandosi del mio ultimo strato aveva spinto quel viscidume dentro di me, che ancora mi faceva vomitare. Le fitte che si irradiavano nel basso ventre erano ancora sostenute e si susseguivano, dolorose, come spilli appuntiti. Come se quel viscidume contenesse chiodi e mi stesse rompendo dall'interno.
Vorrei squartare tutto. Rimanere solo con le ossa, l'unico strato mai intaccato ma ormai fragile, deteriorato, spappollato che mi sosteneva ancora con fatica.
Mi sentivo sporca anche se non lo ero, mentre scivolavo con la schiena sulla tappezzeria ruvida del sedile della sua macchina. Perché ero ancora lì?
Lui aveva lasciato il parcheggio e adesso ci stavamo muovendo verso la strada principale del Minnesota. Guidava attento ma con un ghigno diabolico disegnato sul suo volto, che mi faceva sentire ancora più stupida. Mi trapanava il petto, era orribile, volevo andare via, tornare al college e porre fine a quel supplizio abbandonami nel tepore delle coperte.
Fissavo il finestrino chiuso. La movida americana notturna continuava imperterrita a non interessarmi. C'era l'adrenalina, l'energia dei ragazzi che passeggiavano sui marciapiedi a grandi gruppi parlando del più e del meno, le discoteche, i bar, i tavolini dei ristoranti fuori e dentro pieni, i semafori che scattavano prima giallo, rosso, poi verde e il traffico delle macchine incollonato a destra e a sinistra che ansimava di voler passare sgommando, prima di rimanere nuovamente bloccati alla linea trasversale. In tutta quella atmosfera di piacevole divertimento, io ero indifferente. Per me quella serata era da dimenticare, volevo solo aprire quella dannata portiera e sentirmi libera di respirare a pieni polmoni l'aria gelida della notte dinanzi alla scritta "Mc Nancy Nally Smith" finalmente gli eventi di quella notte sarebbero stati solo un vano ricordo come tanti altri. Il mio volto stravolto si specchiava, si deformava, si scuriva, si rischiarava nel vetro del finestrino. Non era rimasto più niente del trucco impeccabile di Sofia, solo un clown del circo. L'eyeliner nero sapientemente applicato con una linea dritta sopra la palpebra mobile era sbiadito e stava colando verso la mandibola, trascinandosi dietro una scia. Il rossetto era sbavato per colpi dei suoi baci spinti al limite dell'erotismo. La fragilità della mia anima che non si sentiva più forte, in grado di valicare qualsiasi ostacolo presente sul suo cammino, si paragonava ora a una carta. Un momento prima esisteva in tutte le sue funzioni, ma dopo? Veniva dato alle fiamme, stracciato, appallottolato e non restava niente. Cenere nel primo caso, ma la cenere era talmente sottile e invisibile che, all'alzarsi del vento, veniva trasportava via. Mi sentivo prima carta e poi cenere, non c'era differenza. Entrambe erano usate e poi gettate via. Per il maniaco che mi aveva tramortito ero stata solo carta da stropicciare.
«Ora potremmo andare pure in discoteca.»
Dopo quello che mi aveva fatto? Dopo avermi stuprato in macchina? Cosa voleva fare in una discoteca? Festeggiare la sua vittoria e la mia perdita?
«Fottiti.» gli risposi disgustata, voltandomi verso la strada.
«Non sei molto gentile, tesoro.» mi posò una lurida mano sulla coscia, salendo verso l'inguine. «Dai, fai la brava. Accontentami pure in questo.»
Gliela spostai con violenza sentendomi un poco più possente. «Scordatelo, stronzo. Voglio tornare al college.»
Lui portò la mano sul volante. «Ti faccio schifo?»
«Sì, come lo hai capito? Mi fai letteralmente vomitare.»
Mi strinsi una mano contro il petto per coprirmi con il copri spalle nero. Era evidente quanto il mio abbigliamento risultasse più stropicciato che mai, i dettagli della violenza non sarebbe spariti così facilmente come la cenere.
Ci avrebbero messo un po' ma il tempo avrebbe curato ogni male.
«Piano con gli insulti. Ho il mio orgoglio, e comunque amo fare sesso con le ragazze carine e forti come te. Mi fa venire voglia di dare il meglio. Mi piace vincere facile, e la vittoria in questo caso è anche dolce.» sottolineò mentre comparivano le sue innocenti fossetto da santarello che non era. «Progetto molto bene le mie vendette, ma il mio obiettivo principale non eri tu, ma quel cretino di Josh.» spiegò, e a questa ultima sua affermazione la mia bocca si spalancò e sentii il dolore al basso ventre rinvingorsi di nuove spietate fitte.
Cosa, mi aveva stuprato solo per vendicarsi di Josh? Ora si che potevo definirmi una stupida con la s maiuscola. La rabbia cominciò a risalire dalle mie viscere fino a quando non avrebbe raggiunto la superficie per esplodere in tutta la sua potenza devastante come quella del Vesuvio in fase eruttiva.
Quello stronzo mi aveva solo usato, ma in realtà il suo obiettivo nel mirino era un altro.
«Quindi tu hai abusato di me per colpire in realtà Josh?!»
«Esatto.» dalle labbra gli spuntò un nuovo sorriso, che avrei voluto volentieri cancellato. «Mi dispiace di averti fatto credere cose che non esistevano, ma avevo bisogno di qualcosa che lo facesse abboccare.»
«Tu mi hai stuprato! Mi hai costretto a fare sesso con te, perché volevi vendicarti?»
«Era il più semplice modo che ho trovato. Tu per Josh hai assunto una grande importanza e se saprà che ti ho maltrattato, sedotto e poi stuprato sicuramente si incazzerà e la mia vendettà sarà completamente realizzata.»
«Chi ti da il diritto di giocare in questo modo con la mia vita?» gli urlai in faccia innervosita.
Non solo il suo lurido corpo si era strusciato contro il mio, ma adesso dovevo anche sentirmi dire che era per pura e semplice vendetta?
Strinsi i pugni. «Cazzo.»
Che altro sarebbe uscito dalle sue labbra? Dovevo assolutamente saperne di più, indagare a fondo per carpire qualche informazione in più sul suo gioco. Ormai era diventata una questione vitale. Dovevo riscattarmi dallo squallore della sua violenza che mi pesava sulla coscienza da quando l'avevo subìta e salvare Josh dalle conseguenze del suo piano malato. Dovevo farlo parlare a costo di cavargli di bocca altre notizie interessanti, così continuai ad interrogarlo e a scendere nei particolari.
«Bene, ci sei riuscito. Cosa hai ottenuto con questo tuo ignobile gesto?»
«Quello che volevo, Tania.»
«Cioè? Non ho capito dove volevi andare a parere con-»
«Non voglio rischiare che tu vada a riferirlo a quello stupido di Josh.»
«Non glielo dirò.» gli mentii, ma era per una giusta causa.
«Okay dear ma sei avvertita, se glielo riferisci finisci male chiaro?» si avvicinò al mio volto e assottigliò la voce. «Sarà molto più violento rispetto a stasera.» cercava inutilmente di incutermi timore, mentre un polpastrello mi sfiorava la guancia, che io ritrassi immediatamente.
«Tranquillo, non fiaterò. Si col cavolo che non parlerò, te lo sogni.» «Bene, il piano consiste nel far soffrire Josh e metterlo in ridicolo dinanzi a tutto il college. Qui rientra il tuo stupro, dopotutto vorrà sparire sotto terra quando scoprirà per caso che tu sei venuta a letto con me.» si interruppe per fare una risata sguaiata che mi penetrò nelle orecchie.
«Ok.» mormorai mentre traevo un sospiro nel vedere che la macchina si stava avvicinando al parcheggio desolato del college. Finalmente ero libera, libera dal mio aguzzino, dalle sue mani, dalla sua bocca. Non attesi neanche che il veicolo fu completamente fermo e aprii la portiera di scatto, senza degnarlo di un saluto o di uno sguardo. Mi incamminai ghermita nel mio cappotto verso la struttura del dormitorio con la luce esterna che illuminava ogni angolo del patio. Arrivai alla porta d'ingresso, e prima di entrarvi, guardai indietro.
La macchina non c'era più.
STAI LEGGENDO
Sei la mia chiave di violino (Vol.1) [IN REVISIONE]
Romance● Capitolo #1 ~ Perdono? revisionato il 05/03/16 Alessia si trasferisce in America per frequentare un college musicale. Incontra Josh che diventa suo amico e coinquilino, ma sarà l'incontro con Alan a stravolgerle completamente la vita... Pagina...