Capitolo 29

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Vi avevo promosso che avrei ripreso ad aggiornare dopo aver ultimato ciò in cui ero impegnata da ormai molti giorni, e fortunatamente è andata bene, quindi non aspettate ulteriore tempo per il ventinovesimo capitolo perché finalmente lo posto e nelle vacanze natalizie potrete visionare anche il famoso trailer con Matt Bomer, Nina Dobrev, Jane Levy e Colby Melvin come protagonisti principali.

Vi auguro una buona lettura ci si vede sotto, nello spazio autrice.

29.

[Pov's Tania]

Nella macchina del padre dell'idiota notturno stavo per giungere al college di musica.

Non sapeva ancora cosa sarebbe accaduto quando avrei incontrato quella persona. Non riuscirò a guardarla in volto senza provare una forte rabbia per averla trascurata in tutti questi giorni. Avevo dato ascolto al mio orgoglio, la parte negativa che i miei genitori mi avevano consigliato di mettere da parte in queste particolari questioni.
All'inizio il mio arrivo all'aeroporto sembrava come un sogno che si stava materializzando davanti ai miei occhi, come se con un pizzicotto avrei sfiorato solo la dimensione irreale e sarei piombata nella calda imbottitura delle mie coperte, di quel dolce profumo di brioche e cappuccino, prima della scuola che suggeriva un luogo sicuro.
Invece quando mi ero trovata a camminare nella moltitudine di persone, il sogno combaciava perfettamente la dimensione terrestre braccata dalle regole.

Ero davvero in America.

La mia mente cominciava a razionalizzare il luogo, anche se percepivo una scia di paura trapassarmi il petto, mentre i battiti triplicavano paurosamente e rieccheggiavano come un eco nella camera cerebrale.
Curvai il capo in avanti come un vecchio rachitico e mi osservai puntigliosa lo stato dei miei jeans stretti, con qualche strappo e strass disperso nel tessuto, mentre le mani grondanti di sudore si incastravano nella parte alta del cavallo dei pantaloni. Sentivo il tremore aggrapparsi dai piedi e risalire veloce e nonostante fossi accomodata sul sedile mi sembrava di non riuscire a sorreggerne il peso, mi sembrava di precipitare a terra sulle ginocchia. L'ansia mi bloccava il corpo a contatto con lo schienale, era come una mano potente e invisibile che stringeva all'altezza del collo, serrandolo fin quando nessun piccolo respiro avrebbe potuto accedervi.

Non volevo pregiudicare ancora una volta la nostra amicizia.
Perderla sarebbe stato il colmo, non me lo sarei mai perdonato, nemmeno tra un milione di anni.
Sofia è la mia amica, la mia quasi sorella, anzi forse bisognerebbe parlare al passato, non dopo quello che ho fatto. Sono stata una persona ignobile, sono stata solo in grado di ascoltare la me stessa che mi suggeriva di giudicarla per le sue scelte, di allontanarla come se fosse in quarantena, solo perché cercava di dare una svolta alla sua vita diventata ordinaria.

Non era così che si comportava una migliore amica. Non importava se il mio viaggio sarebbe andato a vuoto o se lei non avesse voluto nemmeno vedere la mia ombra, io dovevo chiarire con lei, dovevo spiegarle le ragioni per cui ho fatto le mie sciocchezze, ho bisogno di redimermi. Devo esaminarmi, altrimenti con questo peso che mi tenevo dentro non mi sarebbero bastate le sedute del psicologo.
Dovevo pensare al dosaggio, alle parole più consone che sintetizzassero tutto, ma non sarebbe bastato quel poco tempo che mancava alla destinazione per riuscire a mettere in ordine le idee. Avvertivo dentro di me un tumulto, mentre la strada ci ricorreva dietro, con le strisce dei margini deformati dalla velocità dei sessanta chilometri dell'andatura di Josh Watson.

Chissà perché avevo ancora qualche riserva a fidarmi completamente della sua idoneità alla guida. Sembrava un pazzo spericolato, temevo per la mia povera condizione fisica e se sarei giunta al college tutta intera.
Posizionai una mano al di sotto del mento, mentre una guancia combaciava da un lato col vetro del finestrino semiaperto, da cui proveniva un venticello sferzante di inizio inverno.
«Speriamo in bene.» bofonchiai dentro di me, guardando con un'occhiata il conducente del grosso fuoristrada sterzare.
La macchina sembrò perdere tenuta di strada per un momento, le ruote da un lato rimasero per due millisecondi in equilibrio, ma poi si riassestarono. La guancia scivolò dalla superficie, e a causa della forte velocità la tempia destra vi urtò con un rumore secco e il dolore vi si irradiò, creando un piccolo ematoma.
Josh cacciò il volto fuori dal finestrino e imprecò con un paio di gesti verso un uomo alla guida di una Panda che lo aveva sorpassato senza rispettare le comuni norme previste, e poi rifilò la testa all'interno dell'autovettura.
«Ma certi tipi..» farfugliò visionando la panoramica della strada. «Chissà dove diamine hanno preso la patente.»
«E tu dove l'hai presa?» domandai, alludendo alla sterzata di prima.
Lui mi guardò con un solo occhio, come se avessi detto qualcosa di straordinario, come un alieno che non è capace di decifrare il linguaggio terrestre.
Sospirai e girai il bacino, allungando un dito verso la parte alta contusionata dove un rigonfiamento iniziava a diventare viola scuro.
«Per colpa tua
Lui ridacchiò.
«Beh, così impari ad appoggiarti al finestrino senza la dovuta cautela.» precisò con aria da maestrello.
Roteai gli occhi al tettuccio, possibile che non esistesse un idiota che avesse la probabilità di essere dotato di materia grigia.

Sei la mia chiave di violino (Vol.1) [IN REVISIONE]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora