Capitolo 22

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[Pov's Tania]

Mi sarebbe mancato tutto dello splendido capoluogo campano eccetto le vecchie pettegole, che prendevano postazione nella piazza per scoprire tutto di tutti.
Anche a mia madre urtava la loro presenza, anche se certe volte la loro somiglianza era ridotta di poco. A mia madre pure piaceva il puro pettegolare, non si era mai abbassata a parlare tranquillamente con loro, perché non si riteneva alla loro altezza.
Fare pettegolezzi e sbandierare a destra e a manca era un'arte che si doveva imparare passo dopo passo senza affrettersi. Quando Giulia ci annunciò che John le aveva proposto il matrimonio fummo fortunati che non lo sappero tutti, ma solo quelli più stretti. Giulia fu felice che avesse abolito quelle assurde pratiche di ostentazione, non le piaceva essere criticata alle spalle da quelle vecchie megere consumate dalle tarme e tutto perché si stava sposando passata la ventina.

Caserta aveva una tradizione secolare riguardo i fidanzamenti e le unioni. Una mentalità chiusa nella cupidigia che le ragazze dovessero maritarsi compiuto il ventesimo anno d'età, altrimenti sarebbero rimaste zitelle a vita.

A papà non andava giù questa cosa fin dalla sua prima apparizione nella piccola regione della Campania. Lui era originario del nord Italia, di Milano, e lì le leggi e le abitudine erano differenti. Si lavorava assiduamente, molto ben stipendiati, i lavori erano importanti come quello suo vicedirettore della banca, per amore aveva sacrificato quel l'impiego, si era trasferito ed era finito irreparabilmente in crisi.
Lo aveva voluto lui, ma non gli era mai andato a genio quel cambiamento radicale per stare accanto a mamma e a noi figlie.
Questo dimostrava quanto ci volesse bene e fosse pronto a tutto.
Al tempo stesso io lo adoravo, era il mio eroe fin da bambina, il tipico modello di uomo che mi ero prefissata di sposare una volta cresciuta. Ringraziavo il cielo di essere sua figlia e che lui fosse stato cocciuto a voler in moglie una donna così bisbetica, con tutti che gli remavano contro perché malgiudicavano i loro simili del settentrione. Ma grazie al cielo ora è un cittadino come tutti gli altri.

Nonostante i mille difetti, io li amavo perché parte di me e un giorno ci saremmo rivisti.
Ma per il momento il mio obiettivo era un altro e la nostalgia di casa non mi avrebbe fatto cambiare idea, ormai eravamo quasi arrivati all'aeroporto internazionale di Boston dopo un volo tranquillo.
Dopo circa cinque ore di musica la mia mente si era concessa una forzata pausa, anche se quelle sedie non erano il letto e erano disagevoli, ma alla fine dopo tante smanie di trovare una posizione corretta ero crollata.

Un mare disteso mi si presentava dinanzi agli occhi, in cui le membra del corpo vi erano sprofondate. Nessun ronzio, nessuno voce, solo un silenzio che si poteva sfiorare. Era paragonabile alla pacatezza che si provava quando una volta morti non c'era più tempo né spazio per misurare una giornata di vita.
Ma nessuno osava raccontarlo, perché nessuno ci tornava anche se la Bibbia per chi fosse credente si ostinasse a proclamarlo a gran voce e a testa alta. Era pure quello di cui spesso udivo dire da Padre Andrea Veneziano nelle tante omelie a metà della messa domenicale. Non è che non ci credessi ciecamente come tutti gli altri che pendevano dalle sue spiegazioni e ritenevano che stesse dicendo cose innegabilmente vere, ma qualcuno aveva mai visto quella dimensione prima di morire? No, nessuno. Come è anche vero che l'apocalisse è stata datata nel 2030, e che prima di questa data dovremmo operare del bene e rispettare i comandamenti, ma nessuno ce ne dava certezza, e non è detto che non ci sia un piccolo margine di errore in quelle parole.
Qualcuno, persino quelle vecchie, direbbero che sono atea e peccatrice, ma io non penso al futuro quanto al presente.
Sto viaggiando su un aereo diretta a Boston e poi in Minnesota, sto per rivedere Sofia e per conoscere l'idiota notturno e preferisco pensare solo a questo.

Venni scossa da una mano sulla scapola, pensai che era mia madre che con modi poco gentili veniva a svegliarci per la colazione. Avevo quasi la netta sensazione di riposare accucciata nelle lenzuola che sapevano di bucato appena fatto, nella stanza di sopra quella che da sempre condividevo con Giulia, e che lei ronfasse impoltrita nel giaciglio di fronte. Era solo un'allucinazione dovuta ai ricordi, il sentimento di nostalgia che mi si radicava nel petto, ma che ormai non aveva molta importanza, non potevo tornare indietro, dovevo andare avanti per la mia strada e ignorare il richiamo che riecchieggiava nel limbo dei miei tarli mentali. Il mare lentamente si ritirò e la gelida acqua che mi sommergeva scomparì. Aprii un'occhio riducendolo a uno spiraglio, e con molta difficoltà cercai di inquadrare il campo visivo che mi proponeva la retina.
Ombre e luce sovrapposte come un'unica grande macchia disomogenea. Dinanzi al mio naso un viso privo di messa a fuoco, come se la Nikon del mio cervello non fosse stata regolata. I tratti apparivano indistinti, distorti, finché con un fulmineo riassetto non riuscii a mettere a fuoco l'immagine garbata della hostess di prima che mi aveva chiesto se desiderassi qualcosa. Fu molto deludente e per cancellare un negativo venuto male serrai gli occhi e mi voltai con un fianco dalla parte dell'obitacolo. Quella non si arrese e continuò a picchiettare l'indice sulla spalla.
«Signorina.»
Odiavo quando disturbavano il mio sonno e potevo avere qualsiasi reazione sanguinaria al riguardo.
«Signorina!»
Mi voltai dalla sua parte scocciata con gli occhi ancora chiusi in un finto tentativo di prestarle attenzione.
«Cosa vuole?» le domandai con qualche riserva di gentilezza.
«Siamo quasi per atterrare.» comunicò con falso sorriso.
Decisi di aprire le serrande al mondo e mi drizzai sullo schienale.
«Sarebbe bene che voi allacciaste la cintura di sicurezza durante l'atterraggio.» mi consigliò fiera che io la stessi guardando.
Le hostess non facevano altro che ostentare in ogni dove la loro falsa felicità per occupare una posizione tanto importante come quella. Mi chiedevo se fosse stancante per loro essere ubbidienti e dare la ragione al passeggero più burbero.
Quasi una forma di sottomissione coercitiva verso gli altri. Io non lo avrei mai fatto, più che sottomettermi avrei voluto lavorare dignitosamente come commessa di un negozio o come signora che puliva i bagni bisunti della scuola e dell'ufficio così almeno avrei deciso da sola e in completa indipendenza come renderlo deterso e pronto per essere utilizzato. Un sorriso forzato non era che la pallida stronzata di essere contenti di quello che si aveva senza richiedere altro e io odiavo quel genere di persone che si lasciavano guidare dal materialismo dei soldi. Per questo il lavoro aveva bisogno anche di passione, senza di quelle perdeva le sfumature di originalità.
Non mi restava altro che soddisfare la richiesta della signorina in gonnella. Feci un cenno di diniego e recuperai la cintura. Quella se ne andò nelle altre postazioni lasciandomi sola.
Mi voltai verso tutti gli altri passeggeri e il mio coinquilino di viaggio che era tutto intento a gesticolare parlando al telefono, e non provando alcun interesse dinanzi a un gesto comune voltai la testa verso l'oblò che mi proponeva una visione più naturale. Non c'era più mare o gli spazi sconfinati e vuoti delle soffici nuvole bianchissime, ma la pista di atterraggio, l'unica tappa conclusiva di quel viaggio.
La voce acuta del pilota della compagnia risuonò nel catorcio di metallo. «Vi prego di mantenere la calma. Stiamo atterrando nell'aeroporto internazionale di Boston.» poi tacque.
L'aereo iniziò a scendere piano.
Sentii sotto di me la struttura tremare e oscillare con prestanza finché le ruote dell'aereo non spinsero contro il caldo asfalto americano e si riassestarono.
L'aereo sfrecciò sulla pista, gli ammortizzatori permisero una buona aderenza e attutì l'urto iniziale, poi si fermò.
I passeggeri si alzarono in piedi sgranchendo i muscoli intorpiditi, poi partì un forte encomio per tutti i collaboratori della compagnia per lo splendido viaggio finito magnificamente.
Tutti lasciarono il catorcio, compresa io, riassaporando la dolce sensazione di aria diurna nei polmoni che ispirarono con forza per incamerarne quanto più possibile prima di entrare in aeroporto. Finalmente le suole delle scarpe avevano toccato il suolo e il mio cuore si era alleggerito di un peso.
Sistemai la borsa posando lo smartphone e aprii un ombrello.
Stava piovendo molto forte dannazione e non avevo alcuna intenzione di prendermi qualche malanno, fortunatamente che mamma prevedeva qualsiasi cosa potesse accadere. Reggendolo con una mano mi inoltrai nella moltitudine di persone scese con me, sulle nostre teste la presenza di tutti quei parapioggia creava una barriera di mille colori.
Non appena entrammo in galleria riabbracciai la sensazione di calura e il cuore iniziò a palpitare con foga quando mi trovai ad osservare il nuovo ambiente multietnico di Boston.
Da questo momento in poi avrei dovuto fare affidamento sul mio orientamento. Tutte le altre persone sul mio stesso volo si smistarono in diverse direzioni, io ero rimasta ancora impallata alla porta ormai chiusa alle spalle.
«Ok, calma.» mi dissi cercando di rintracciare nella borsa la cartina americana che papà mi aveva consigliato di portare appresso affinché mi aiutasse a trovare la direzione. «Tanto ho la cartina.»
Rovistai nella borsa, ma vi cacciai da dentro solo inutili accessori.
«Oh no!» esclamai, schermandomi con una mano la bocca. «No, l'ho messa nella valigia!»
La valigia doveva ancora essere al ritiro bagagli. Iniziai a camminare infiltrandomi nella confusione, notando una differenza abissale con la monotonia dell'aeroporto romano, nulla a che vedere con una catena di primaria dominanza come quella americana. Lì potevi trovarci di tutto, uomini anche neri di pelle, extracomunitari e un serrato controllo della polizia.
Poco più avanti del ritiro bagagli c'era un uomo in divisa e affianco un metal detector con una lunga fila di persone sbuffanti in attesa.
I controlli dovevano essere molto rigidi e ben monitorati per creare quell'intaso, e molto più necessario era evitare di portare addosso cose metalliche o sospettose. In America però le pistole e le armi bene o male ogni famiglia li possedeva per legittima difesa, ma spesso e volentieri i telegiornali annunciavano di omicidi che non rispettavano quel preciso scopo, ma che seguivano subdoli piani, bassezze e vendette.
Quindi mi sembrava esagerato quel tipo di controllo congegnato visto che i primi a uccidere restavano in patria e non altrove.
Ma dopotutto ogni legge doveva essere rispettata per una pacifica convivenza, quindi stendiamo un velo pietoso sulla faccenda e sottoponiamoci ai controlli.
Mi recai alla coda e attesi il mio turno senza muovere alcuna protesta, ma morivo dalla voglia di cacciarmi in qualche guaio di qualsiasi tipo visto che per principio me li andavo a cercare.
Finalmente dopo una mezz'ora in piedi arrivò il mio turno. Mi avvicinai all'agente e mostrai la carta d'identità. Mi sottopose vari quesiti e mi tastò il cappotto per controllare se non nascondessi niente di disonesto, poi mi fece passare sotto il metal detector.
Un radar rosso mi controllò, finché il suo trillo sostenuto non risuonò dappertutto. L'agente mi guardò di sottecchi obbligandomi a mostrargli il contenuto nelle tasche, mentre tutti gli altri in coda si erano affacciati come se stessero assistendo a uno spettacolino circense. Io non volevo, già ero stata controllata come se fossi in quarantena e non volevo esserlo ulteriormente. La coscienza mi supplicò di non replicare gli ordini tassativi degli uomini in divisa, ma io non la ascoltai e preferii ignorare il buon senso. Al mio 'no' indiscutibile la guardia fu costretta a prendere provvedimenti.
Complimenti mi ero cacciata nei casini e tutto perché quel dannato metal detector si era permesso di suonare. Benvenuta davvero.
La guardia mi ordinò di seguirlo.
«Ragazzina se sei una in cerca di problemi li hai appena trovati.» parve assumere toni minacciosi mentre ci facevamo spazio fra la folla che si scostava come se quel tipo fosse un pericoloso killer. «Non hai voluto ascoltare i miei ordini bene, ma al grande capo non li negherai.» continuò a parlare mentre io gli andavo dietro e lui procedeva a passo spedito verso un corridoio un po' desolato.
Credeva di farmi paura con quella voce roca e profonda, ma era solo un povero illuso. 'Grande capo' non mi metteva comunque in agitazione, era quel luogo che sembrava lo scenario perfetto perché quella guardia potesse permettersi oscenità a farmi bloccare il fiato nella gola. Abbassai il capo a terra e aumentai la distanza di sicurezza per poter scappare. Il tipo si bloccò dinanzi a una porta e la aprì in uno scatto. Si voltò e mi vide madida di sudore che sembrò provare piacere. «Oh, vedo che sei spaventata.» decretò con un ghigno derisorio. «Avanti, entra!»
Mi prese un braccio e mi costrinse a entrare per prima in quella piccola stanza asfissiante. Ebbi quasi l'impressione di essere una bestia ingabbiata quando si chiuse la porta alle spalle.
Rimasi sola, con la vocina della coscienza a rimproverarmi per il poco buon senso che possedevo, era come udire i sermoni di mamma quando prendevo un brutto voto a scuola o non mi impegnavo ad aiutarla come lei avrebbe voluto. Mi avvicinai tanto per distrarmi prima che giungesse il grande capo e presi posto in una delle sedie di fronte alla scrivania.
Osservai ogni minimo tratto di quel luogo che somigliava a un ripostiglio più che all'ufficio del direttore dell'aeroporto come mi era stato detto prima dalla guardia. Il cestino delle cartacce pieno fino all'orlo, la scrivania col grosso computer ingombrante, i vari quadri di pittori sconosciuti, un grande orologio grigio che segnava l'oro al di sopra del muro dinanzi. Una cosa riuscì a stimolare la mia attenzione, una foto girata dal lato opposto.
Chissà cosa raffigurava. Ora mancava solamente che fossi scambiata per una ladra e la giornata sarebbe stata un disastro totale.
Completamente catastrofica.
Sospirai e mi abbandonai stremata sullo schienale rigido, dopo un lungo viaggio come quello mi sarebbe piaciuto raggiungere quel mentecatto di Josh per farmi accompagnare al college, dove un letto di quelli veri mi avrebbe atteso. Piano sventato.
Di chi sarebbe la colpa?
Ammetto è stata mia.
Era la prima volta che mi stavo prendendo la responsabilità di un'azione non voluta, papà avrebbe affermato con gioia che la piccola Tania Bergazzi stava pian piano assumendo forma e mentalità di una donna. Immaginavo quasi la sua voce risuonarmi nel padiglione uditivo e che mi provocava una fitta sleale al petto di nostalgia.
Stai diventando sentimentale ora?
Mi meraviglio di te, Tania.
Veramente questa fase credevo mi sarebbe passata una volta scesa da quel catorcio metallico, ma vi sarei voluto ritornare di corsa per evitare il grande capo. Carcere, garrota, espulsione? Ma che mi era saltato in testa! Mi avrebbero preso per una sovversiva.
Scossi la testa per rimuovere pensieri funesti e la foto girata tornò a interessarmi. Mi drizzai e allungai una mano verso quel quadretto. Lo appoggiai sulle gambe e lo voltai a rallentatore.
«Eh?» mi lasciai scappare osservando le due figure sorridenti all'obiettivo in primo piano. «Ma cos-?» mi interruppi, spalancando lo sguardo.
Un certo disinganno mi bloccò le parole in gola. Il grande capo doveva essere che stringeva una mano sulla spalla di un giovane molto carino, probabilmente era il figlio visto che c'era una certa rassomiglianza nello sguardo.
Il ragazzo era davvero avvenente, poteva avere sedici anni nonostante godesse di una vertiginosa altezza. I suoi occhi immortalavano una smisurata autostima di sé e i capelli gli incorniciavano il volto quadrato.
Era carino. La coscienza aggiunse 'adorabile e affascinante' senza il mio consenso. Le mie guance arrossirono vistosamente per quell'afa insopportabile che mi appiccicava la pelle, non per altro.
«Sicuramente un figlio di papà.» commentai e posai la foto sulla scrivania. Mi issai in piedi e camminai avanti e indietro per la stanza rinvigorendo i tendini.
Improvvisamente la maniglia si mosse verso il basso, e mi voltai di scatto con la coscienza che mi parlava e non veniva calcolata.
Dalla porta entrò un signore scortato dalla guardia di prima.
'Grande capo' direi più piccolo visto che era un soldo di cacio, portava pantaloni hawaiani e degli occhiali così grossi che deformavano gli occhi e tocco finale era grasso come un maiale.
«È lei la ragazza?»
La guardia annuì.
È un sogno mi sveglierò!
«Bene figliola.. cosa ti ha portato qui?» chiese con un'aria per niente intimidatoria. Lo guardai a bocca aperta, mentre la guardia alle sue spalle alzava gli occhi al cielo.
«Oh, beh.. il vostro collaboratore mi voleva perquisire come se avessi fatto fuori qualcuno!»
«Ma signor Harry lei sembrava un'invasata e il metal detector durante i controlli ha trovato qualche anomalia nel suo cappotto.» si impegnò a ribattere l'uomo. «Pensateci voi.» lo esortò puntandomi. «Questa è fuori di testa!» sferrai un pugno nell'aria arrabbiata per quella sua ultima insinuazione, mentre il grande capo mi consigliò da buon cristiano di non complicare le cose a mio sfavore. Diede una pacca sulla spalla alla guardia. «Il metal detector è rimasto incustodito meglio che torni a lavoro.
Ci penso io.» La guardia abbassò il volto e ubbidì con un gesto di diniego nella direzione del grande capo e ci lasciò soli, sperando mi desse una condanna esemplare.
L'avrei data a lui brutto maleducato, pensai masticando i denti per la rabbia, mentre il grande capo mi toccava un braccio per farmi prendere posto.
Lui si dispose a mani congiunte dinanzi a me, che avevo il volto chinato al pavimento.
«Ragazzina, quello che hai fatto è sicuramente imperdonabile.» fece lui con espressione coscienzosa, rispetto a quella guardia villana che mi aveva trascinato lì di peso e mi aveva anche insultato.
«Certo, ma non potevo sapere che qui vigono regole diverse.»
Lui alzò un cipiglio.
«Da dove vieni?»
«Caserta, Italia.»
«Capisco.» si limitò a dire riflessivo. Finalmente qualcuno che era pronto ad ascoltare.
Grasso ma buono di cuore.
«Comunque, io sono 'il grande capo' o il direttore dell'aeroporto di Boston, Harry Watson.» mi allungò la sua mano che mollamente strinsi nella mia.
«Mi chiamo Tania Bergazzi, sono italiana e sono qui perché dovevo incontrare un'idiota notturno che mi dovesse portare al college Mc Nally Smith del Minnesota.»
«Oh. Comprendo che è stato solo un disguido.» concluse lui con un sorriso sincero a riempirgli il volto. «Quindi ti assolvo, ma la prossima volta cerca di essere meno testarda, va bene?»
Io feci di sì e mi alzai, facendo una gunflette in avanti per ringraziarlo della bontà.
«Mi sembri simpatica.»
Che carino il super capo, e meno male che quella stupida guardia non se lo è raggirato.
Ma la cosa che più mi ha sorpreso è che quel gentile capo abbia il cognome Watson. Quel cognome che mi ossessiona, il cognome dell'idiota notturno. Ce ne saranno molti in giro, sarà molto utilizzato, insomma suona anche bene per un cretino, ma non può essere che quel signore centri con Josh.
Non si somigliano.
La coscienza mi ricorda che io e lui non ci siamo visti, ma io la mando a farsi benedire.
«No, è assurdo!» esclamai senza rendermi conto di averlo gridato.
Il grande capo alzò gli occhi castani interrogativo.
«Nulla, problema mio.» gli dissi, grattandomi la nuca e ridendo isterica. «Arrivederci!»
Mi girai e andai verso la porta.
La stavo per aprire e catapultarmi fuori quando essa si aprì prima, e un forte effluvio maschile mi investì in pieno, inebriandomi il cervello. Alzai il volto e davanti a me come ostacolo alla mia unica via di fuga si dispose un ragazzo scultoreo, con un fisico ben palestrato di duri allenamenti.
Guardò oltre la chioma rossa dei miei capelli il tipo seduto alla scrivania. «Oh, papà!» si affacciò e i lucenti riccioli definiti cioccolato si spostarono, delineando un viso perfetto. In sua presenza la mia testa iniziò a lavorare di buona lena al punto da non riuscire più a fermarsi e le guance apatiche si colorarono di rosso per la prima volta da quando mi ero lasciata Baldi alle spalle. Quel ragazzo mi aveva fatto avvampare.
«Oh, figliolo!» lo salutò di rimando il grande capo sollevandosi.
Non appena si accorse del mio incosistente corpo mi osservò per una manciata di secondi. Mi sentii brutta, a disagio, poteva trovarci tanti difetti in me per colpa di quel travagliato scalo, i capelli in pessimo stato e disordinati, il trucco sciolto, il disastro del mio viso infantile che provavo a rendere più maturo ogni volta.
Questa non era la circostanza per fare certi incontri, sopratutto con quello schianto, ma guardandolo meglio stava inspiegabilmente sorridendo. Perché in certi casi la terra preferisce farti rimanere lì invece che inghiottirti?
«Tesoro non è ancora arrivata?» gli domandò il padre, mentre lui mi fissava come un'opera d'arte.
Le guance stavano lentamente prendendo il colorito rosso, nonostante mi fossi imposta di restare pallida.
Il suo cervello razionalizzò il richiamo in ritardo.
«Eh?»
Il padre sospirò come rassegnato.
«Ehi non fare il cascamorto pure con lei Josh!» fu in quel momento che uno schiaffo mi svegliò di soprassalto e con violenza.
No, non solo venivo presa per un'assatanata, ma quel palestrato, affascinante e mozzafiato ragazzo è Josh Watson! Proprio quel Josh!
Sì, lo è. Colpita e affondata.
La mia vita è una schifezza.

****

Bam! Tania e Josh si sono incontrati, e a quanto pare ne vedremo delle belle a partire dai prossimi? Come andrà la convivenza fra i due dopo un primo scoppiettante incontro?
Per saperlo non dimenticate stelline e commentini in quantità.
Vi adoro :)


Sei la mia chiave di violino (Vol.1) [IN REVISIONE]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora