5. Didì

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Quando apro la porta, mi ritrovo in un teatro vuoto illuminato debolmente.

Tra le file immense di poltrone rosse non si nota neanche un'ombra.

Tutto è perfettamente immobile e in silenzio.

Avanzo di qualche passo sulla moquette rossiccia, mentre il gatto si ferma davanti a me per leccarsi il pelo sul petto.

La porta si chiude sbattendo in una nuvola di polvere per poi scomparire.

«E adesso?», dico a bassa voce.

Il gatto si gira come se avesse capito la mia domanda, poi scende le scale della platea illuminate da piccole luci rosse.

Lo seguo, sempre guardandomi intorno, ma c'è solo odore di chiuso e poltrone di stoffa usurata.

Scendo ancora molti scalini prima di raggiungere l'imponente sipario di velluto che si riversa con onde scarlatte sul palco.

«Gatto? Dove mi stai portando?», chiedo.

Credo che parlare ad alta voce mi dia un po' di conforto.

Il gatto si ferma. Poi si volta nella mia direzione e confonde i suoi occhi ipnotici nei miei.

Le luci del teatro iniziano a lampeggiare ad intermittenza e una musica si diffonde per tutta la sala: la melodia di un dolce carillon scandita da brevi rintocchi di campana.

Fisso di sbieco la coda del gatto, che sbatte da una parte all'altra come se stesse tenendo il tempo, e poi, pian piano, lo vedo sbiadire fino a dissolversi completamente. In quel momento mi domando se Carroll sia passato di qui prima di scrivere la sua Alice. Forse dovrei fare una battuta al gatto la prossima volta che compare. Non mi stupirei nel vedere una larga dentatura sorridente che gli attraversa tutta la faccia.

Le luci del teatro si spengono, la musica cessa.

Una voce maschile, amplificata da un microfono, dice: «Informiamo i gentili spettatori che lo spettacolo inizierà tra poco. Vi preghiamo di prendere posto, spegnere i telefoni e non starnutire per nessun motivo, al fine di non disturbare gli altri viaggiatori.»

Perplessa, prendo posto sulla poltrona più vicina, mentre il grande sipario si alza cigolando e un vento freddo mi investe scompigliandomi i capelli.

Sul palco nevica.

Alberi enormi muovono lentamente i loro rami neri nelle luci blu e soffuse del palcoscenico. Una musica siderale, inondata di piccoli campanelli e dal suono di un clavicembalo, cresce sempre più. Il freddo è tale che sono costretta ad abbracciarmi.

Dal soffitto del palco viene calata un'enorme luna bianca, forse di cartone, un po' sporca. Sopra di essa sta seduta una donna nera con gli occhi chiusi.

Ha lunghissimi capelli rosa pallido e indossa un vestito scintillante del medesimo colore, pieno di veli e strascichi, che si riversano dalla luna sull'intero palco.

La donna si tiene con forza alla luna e solo quando inizia a cantare capisco che è una drag queen.

La canzone viene accompagnata da gesti vivi eppure lenti. A volte è come se le sue mani stringessero il cuore nel petto, per paura che possa scappare da un momento all'altro. Altre volte, nelle pause tra una strofa e l'altra, la drag queen estrae un cartello su cui è disegnata una gigantesca bocca sorridente e si copre le labbra.

Credo di osservare l'intero spettacolo senza respirare.

Il canto che ascolto non è fatto esattamente di parole, solo di suoni inarticolati. Pare che la drag queen stia parlando una lingua tutta sua, una lingua distante, dimenticata dal tempo.


***


La neve continua ad agitarsi tra gli alberi come in una sfera di natale. La luna sale di nuovo inghiottita dal soffitto mentre il vento soffia gelido.

Il sipario si chiude pigramente con lo stesso cigolio di prima.

Resto immobile sulla poltrona, ancora un po' stordita da quello che ho visto.

«Allora! Come è andata, my love

Sobbalzo d'improvviso e voltandomi ritrovo la drag queen che mi fissa accigliata. Ha delle piume variopinte appese alle orecchie. Ora riesco a vedere che è un uomo, ma si capisce solo dalla mascella e da alcuni tratti del suo viso un po' più marcati.

Rimango a bocca aperta un secondo. Sono ancora un po' sconcertata dal fatto che le persone appaiano così di colpo in questo mondo.

«È stato stupendo», dico, facendo poi salire il sorriso anche agli occhi.

«Oh, my love! Ti ringrazio infinitamente!», l'uomo si rassetta il vestito perlato, sorridendomi dolcemente. Gli occhi scuri, circondati da folte ciglia viola, paiono soli assopiti dalla polvere. Solo ora noto le lunghissime unghie finte attaccate alle dita e il rossetto bordeaux sulle labbra carnose. Eppure, in tutto questo trucco pesante e glitter accecanti c'è un'eleganza raffinata.

«Come ti chiami, tesoro mio?», chiede la drag queen sbattendo più volte le ciglia colorate.

«Mi chiamo Ciscandra», rispondo, spostandomi una ciocca di capelli dietro un orecchio.

«Che nome adorabile! Io sono Dalila, in arte Lithium Dalildà o Charlamaine Opal», dice lei, facendo un piccolo inchino con una mano premuta sul petto.

«Piacere di conoscerti», aggiungo alzandomi, mentre un fiume di parole mi si riversa addosso.

«Puoi anche chiamarmi Dalidà, o per gli amici Didì! Il mio nome di battesimo è Aletto. Mia madre deve esser stata parecchio fatta in quel momento! Chiamare una bambina con il nome di una delle Furie!»

«Furie?»

«Sì, Furie. Erinni! Quelle creaturine oscene, fastidiose e fuori moda dei greci!», dice chiudendo gli occhi e portandosi il dorso della mano sulla fronte con fare teatrale.

«Aletto colei che non riposa, che non dà requie, nata dal sangue di Urano sgorgato dalla ferita di Crono», aggiunge poi con voce grossa, come se recitasse il trailer di un film.

«Oh, capisco», dico pressando le labbra tra loro per trattenere una risata.

«Quella donna! Mi ha tormentato per troppi anni! Sempre con la stessa frase: "Il nome è importante, Aletto! Il nome che dai a tutte le cose, racchiude l'intero destino del dolore e della gioia che poi incontrerai". Bullshit! Sì, sì! Proprio delle cavolicchiate! Oh, per dio! Tesoro, scusami! Sono fissata con i nomi! E sto parlando a fiume come una sciocca, senza neanche darti il tempo di rispondere!», Didì cessa il suo discorso fatto con ardore.

«Non c'è problema», mi stringo nelle braccia un po' imbarazzata.

«Non ti ho mai visto qui a teatro. È la prima volta che vieni?», dice poi lasciando emergere un sorriso luminoso sulle labbra dipinte.

«Sì, in realtà vorrei sapere dove sono finita», dico finalmente sostenendo il suo sguardo.

«Dove sei finita in che senso, tesoro mio?», chiede scuotendo la testa, senza capire.

«Dove sono, che posto è questo?», sospiro osservando le ciglia viola spalancarsi sorprese.

«Oh, questa è nuova, my love! Ma naturalmente siamo nel Mondo Bipolare!»


 ♥ ♥ ♥ 

Ciscandra - Il Mondo Bipolare || 1° LibroDove le storie prendono vita. Scoprilo ora