28. La scala a chiocciola

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«Se vuoi liberare la tua amica, devi restituirle la sua malattia», Poe lo dice con parole estremamente semplici, ma qualcosa mi trema dentro.

«La sua malattia...», sussurra Didì. Non è veramente una domanda, è più una consapevolezza che le scivola lenta sulla pelle.

«Puoi lasciare la tua amica in quel quadro e sottrarla al dolore, oppure puoi restituirle la sua ombra e farla uscire. In nessun altro modo la luce può renderla carne con delle sfumature», continua Poe, mentre il silenzio è assoluto da parte delle altre figure nei dipinti.

«Ma questo vuol dire che tornerà a soffrire, a essere perseguitata dal suo male?», chiedo sostenendo i fissi e brillanti occhi neri.

«Ragazzina, ognuno di noi ha delle fiamme violente in cui bruciare lento. Anche se è la sua malattia, fa pur sempre parte di quel qualcosa che la rende unica», risponde Poe portandosi una mano al petto.

«E come trovo la sua ombra?», chiedo, mentre sento una grande tensione nello stomaco.

«Dovete trovare Miss Web, è lei che tiene addormentate le ombre», dice Poe, mentre la luce del candelabro illumina per un attimo la bocca di Mozart, non più rischiarata da caldi sorrisi.

«Miss Web! Ma è la mia proprietaria!», esclama sorpresa Didì con gli occhi spalancati.

Poe sostiene per un attimo lo sgomento di Dalila con il suo silenzio, poi aggiunge solo: «Proseguite nel corridoio, troverete una scala a chiocciola sulla sinistra. Vi porterà alla soffitta di Miss Web. Ma state attente alla sua musica!»

Non sento più neanche le dita che stringono gelate il candelabro. Sembrano diventate di ferro anche loro. Disorientata, fisso gli occhi di Dalila oscurati da pensieri diversi; vorrei farle mille domande o forse solo rassicurarla, ma ha il mento che trema e io ho paura di farla esplodere con le mie parole.

La luce trema sui profili silenziosi nei quadri. Mi accorgo che ci sono altri dipinti vuoti, oltre a quello in cui mi ha sorriso Virginia Woolf.

«Dove sono andati gli artisti delle cornici vuote?», chiedo non senza un certo timore.

Poe abbassa per un secondo lo sguardo, mentre la luce delle candele illumina targhe che non avevo notato prima. Una dice: Hemingway. Un'altra, più consumata, riporta: Van Gogh.

Mi accorgo però che non tutti i quadri sono completamente vuoti.

Sulla tela di Van Gogh è dipinta una stanza spoglia, con al centro un tavolo massiccio su cui è appoggiato un orecchio insanguinato. A guardarlo così pare uno di quegli oggetti abbandonati nei traslochi, uno di quelli che vengono lasciati nella vecchia casa perché considerati ormai inutili o perché non ci sono mai piaciuti veramente.

«La Regina Bipolare li ha fatti trasferire. Sono Stelle Fredde ora», sospira Poe con lo sguardo rivolto verso la cornice di Van Gogh alla sua destra.

«Stelle Fredde?», chiedo con un peso al petto.

Samuel.

Per un momento i biondi capelli di Ridal mi invadono la mente.

«Morti violente, mia cara. Sono stati trasferiti perché suicidi», mi dice tornando lentamente a guardarmi.

Nessun coltello mi attraversa lo sterno.

Al contrario, resto impassibile.

Le sue parole si arrampicano come mani invisibili sulla mia schiena, ma lo fanno a rallentatore, come se temessero di raggiungere troppo in fretta il nudo centro del cuore.

Suicidi?

Samuel non è morto suicida.

Di questo sono certa.

Ma perché Poe dovrebbe mentire?

D'altronde è solo il dipinto parlante di un artista ormai morto.

Perché credere a un quadro?

Sono così disorientata dalla mia assenza e spaesata dai brividi che timidi cercano di scuotermi, che la mia bocca si chiude. Fisso l'orecchio di Van Gogh, che sembra quasi brillare di luce propria, come l'occhio di un angelo. La profonda voce di Poe pare aver zittito tutti i presenti, perché il silenzio che ci avvolge è totale. Resto a fissare il nero quasi caldo degli occhi del poeta e, per un attimo, vengo avvolta da una strana sensazione di tepore. Poi faccio una piccola riverenza, abbassando la testa senza dire niente, mentre sento Dalila prendermi per mano. La sua presa mi stringe forte. Ha le mani sudate e quando alzo gli occhi nel suo sguardo leggo una paura che non ho mai visto prima.

«Ciscandra, andiamo», mi dice. Nessuna dolce inflessione nella sua voce, nessun vezzeggiativo o incoraggiamento ironico.

Capisco che il nostro viaggio sta diventando una di quelle domande tortuose, che ti si infilano brucianti nella testa e che non ti lasciano dormire la notte, perché le lenzuola sudano e hai troppe voci nello stomaco.

Dalila e io ci muoviamo a tentoni nel buio, un po' come si fa nel dolore, ma non ci mettiamo molto per trovare la scala a chiocciola.

Quando saliamo, mi sento persa.

O forse non è giusto dire persa.

Salendo quella scala attorcigliata su se stessa, mi ritrovo a guardare più volte lo stesso frammento di stanza, con gli stessi quadri immersi nel silenzio.

E mi sento un po' come nella vita, quando ritorni sullo stesso frammento continuamente, quando pensi di non esserti mai mosso, di non aver migliorato niente. Ti vedi incastrato sempre nello stesso problema, ma poi fai un altro piccolo passo in alto, guardi in basso tutti gli scalini che hai già percorso e ti accorgi che, in realtà, la prospettiva non è mai la stessa. Forse il problema lo è, ma tu sei cambiato.

«Ciscandra, ora ascoltami bene. Tu cerca le ombre, al resto ci penso io», Dalila mi parla ancora così lucidamente e senza calore che mi spavento.

Solo dalla presa salda sulle mie braccia capisco che quello che stiamo per affrontare è molto pericoloso e che a volte non c'è tempo per l'ironia.


♥♥♥

Ciscandra - Il Mondo Bipolare || 1° LibroDove le storie prendono vita. Scoprilo ora