32. La torre

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Mentre io e Luce restiamo immobili, strette al corpo di Didì, un carillon di porte ci vortica rapido attorno.

Il luogo in cui arriviamo è una stanza circolare. Somiglia inquietantemente a quella della Regina, solo che è fatta interamente di pietra scura ed è completamente spoglia. Piccole fiaccole, che ardono senza emettere alcun suono, la illuminano debolmente.

«Oh, cielo! Dove sono finita?», esclama Didì con la voce impastata, stropicciandosi gli occhi. Sembra un bambino appena risvegliatosi da un incubo e provo una tenerezza immensa nel vederlo così, ma anche una colpa amara. Forse per un attimo mi pento di non esser rimasta nella Stanza delle Pillole. O forse è lo sgomento dell'aver visto il mio compagno di viaggio soffocato dalle ragnatele a lasciarmi ancora stordita. Per un attimo ho creduto di averlo perso per sempre.

D'improvviso, un rumore secco ci fa voltare.

Una porta spalancata emerge prepotentemente tra le pietre annerite e una forte corrente d'aria ci investe, sollevando i miei capelli e quelli di Luce, mentre Dalila mugugna qualcosa che non riesco a sentire.

Sulla soglia ci aspetta un maggiordomo.

È vestito elegantemente: scarpe lucide, pantaloni con la piega, giacca stirata in modo impeccabile. Porta un tovagliolo di lino bianco sul braccio sinistro, mentre nell'altra mano sorregge un candelabro d'argento. Ha un colletto inamidato e...

Mentre i miei occhi si sollevano lenti sul suo viso mi accorgo di non riuscire a metterlo a fuoco. Non riesco a guardarlo, quasi la testa avesse deciso di diventare improvvisamente pesante e i miei occhi faticassero a restare aperti, come in preda a un sonno tremendo.

Quando finalmente riesco ad alzare il mento, vedo condensarsi sulla sua faccia un gran numero di volti diversi e così repentinamente che mi è impossibile distinguere dei lineamenti o un'espressione precisa.

Il maggiordomo ci fa segno di seguirlo, senza dire una parola, e in me striscia lentamente l'inaspettata certezza che siamo continuamente sulla soglia di qualcosa di sconosciuto, con una nuova parte di noi che ci aspetta. Una parte che all'inizio fatichiamo a guardare direttamente perché contiene un cambiamento sconvolgente.

Quando percorriamo nuovamente un'altra scala a chiocciola ho un brutto presentimento, perché ho capito che non sempre salire è sinonimo di finire in un luogo piacevole (e poi inizio a odiarle queste stramaledette scale!).

Mentre saliamo io accarezzo con una spalla l'umido muro di pietra. Didì e Luce camminano al mio seguito ancora in silenzio. Per tutto il tragitto fisso le scarpe del maggiordomo, che fanno uno strano cigolio. L'uomo non si volta mai, neanche per vedere se lo stiamo effettivamente seguendo.

Solo quando arriviamo nuovamente in uno spiazzo circolare, realizzo che siamo all'interno di una torre. La stanza è di nuovo simile a quella da cui siamo partite, solo che è occupata da un'enorme scacchiera bianca e nera, ai cui lati stanno ritti cinque altissimi armadi con le ante chiuse. La scacchiera ci separa da una porta di vetro colorato, sotto un'ampia arcata di pietra, su cui stanno appollaiati numerosi gargoyle, che ci fissano arcigni con occhi lucenti. Occhi fatti di specchi. C'è una strana luce che si posa pesante su tutto lo scenario. Una luce spettrale, come quella degli incubi, e anche i colori sono diversi: sono più accesi, come se qualcuno avesse deciso di aumentare i contrasti.

Premo i palmi delle mani sugli occhi brucianti, prima di voltarmi verso Luce e scoprire che la mia vista sopporta malamente anche i suoi capelli rossi. Così raccolgo per un secondo lo sguardo guardingo di Dalila, che sta alla mia sinistra, accarezzandosi le braccia ancora frastornato.

«Luce, cosa stavi dicendo a proposito del Sanatorio? Hai detto che si modella su di noi», dico, cercando di tenere lo sguardo fisso sul volto bianco, rigato dal trucco ormai sciolto.

Luce, prima di parlare, si sistema la lunga gonna di stracci a righe e ingranaggi arrugginiti: «Dicevo che nulla è lasciato al caso. Ogni stanza del Sanatorio che incontri, la attraversi perché si modella sul tuo inconscio, suoi tuoi ricordi, desideri, paure, sulla tua persona.»

«E tu questo come lo sai?», chiedo, fissando il cuore inciso sulla sua guancia.

«Lo so, perché sono stata rinchiusa qui per molto tempo e tutto ciò che ho affrontato mi conosceva meglio di chiunque altro», dice, sorridendo appena e abbassando lo sguardo verso le garze strette ai suoi polsi.

«Quindi è una specie di inferno personale», dico, osservando per un attimo i numeri tatuati sul suo braccio.

«Inferno o no, ogni stanza prende forma da voi e da chi vi accompagna. Pensateci, tutto ciò che avete incontrato aveva a che fare con qualcosa di unicamente vostro», la voce di Luce è così melodiosa, che resterei ad ascoltarla per ore. A volte pare una voce impostata, ma rapisce perché è una cantilena suadente, con una delicatezza che un po' spaventa.

Didì si irrigidisce per poi abbandonarsi alle sue domande a fiume: «Vuoi forse dirmi, darling, che quelle orrende creature batuffolose sono zampettate fuori apposta perché mi fanno un orrore da urlo incontrollato?»

Luce in risposta fa spallucce, mentre io ripenso alla Stanza delle Pillole, ad Alibi, a Ridal. In effetti era difficile conoscessero Samuel per una pura casualità, ma non pensavo ci fosse una logica in un mondo dove si materializzano porte a caso e dove le malattie sono ombre con gli artigli!

«In più, ora si è aggiunto anche il mio di inconscio! Quindi tutto quello che affronteremo d'ora in poi, verrà dai nostri mondi condensati uno nell'altro. Quando le porte vorticavano c'è stata solo una persona a cui ho pensato fortemente, una persona che mi ha aiutato a scappare tanto tempo fa», dice Luce, sistemandosi il cappellino nero sulla testa. Vedo solo ora che alcune ciocche dei suoi capelli sono bruciacchiate.

«A chi hai pensato?», chiedo, mentre la curiosità innalza una marea di domande.

Ma Luce non arriva a rispondere neanche stavolta.

Strani cigolii spalancano le ante degli armadi, mentre io trattengo il fiato.

Quelli che escono lentamente, alcuni con strani movimenti sconnessi, altri quasi scivolando, sono dieci scheletri bianchi. Sono talmente lucidi, che sembrano quasi brillare di luce propria e noto che, tra le sottili dita appuntite, stringono delicatamente delle rose nere, alcune fresche, altre appassite.

Uno strano rumore inizia a invadere la stanza e mi accorgo che proviene dai loro denti, che battono ritmicamente come nacchere. Mi ricordano dei giocattoli difettosi, come quelli che escono dalle scatole all'improvviso spinti da lunghe molle.

Mentre Didì e Luce indietreggiano. I miei piedi invece non vogliono saperne di muoversi e così resto bloccata a fissare la strana danza che gli scheletri iniziano a fare.


♥♥♥

Ciscandra - Il Mondo Bipolare || 1° LibroDove le storie prendono vita. Scoprilo ora