Capitolo Tredicesimo

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"Kat, tu non mi nasconderesti mai niente, vero o falso?".

Quel gioco. Era da molto che non lo usava. Il mio primo pensiero è che stia per avere uno dei suoi momenti.

"Vero" mi affretto a dire con una punta di preoccupazione nella mia voce. Lo vedo alzarsi e posare qualcosa sul tavolo. La riconosco subito. La lettera di Gale. Deve aver cercato qualcosa su cui scrivere nel mobile e l'ha trovata. Non dice niente. Mi guarda solo. Deluso.
E io mi gelo. Non avevo mai visto quegli occhi cosi belli diventare due pozzi di ghiaccio.

È fermo in silenzio che mi fissa senza muovere un muscolo. Ho paura. Ho paura di quella calma infinita dei suoi gesti che dietro nascondono una rabbia indicibile, inimmaginabile.
"Peeta.." deglutisco.
" Ho provato a giustificarti, nella mia testa, sai? Mi sono detto che non l'avevi letta, ma si vede che lo hai fatto" dice prendendo tra le mani lo schienale della sedia. "Volevo parlartene, ma non sapevo ancora se fosse il caso. Avevo bisogno di un po' di tempo, ma tu l'hai trovata prima"     "Di tempo per cosa?" Chiede. Credo si sia calmato perché lo vedo aggrapparsi sempre meno al legno freddo. "Per decidere, per digerire anche solo quelle parole, ok?". Non riesco a mantenere la calma. Non gli ho raccontato della lettere ma lui non fa parte di questo lato della mia vita.

- Allora perché mi sento così tremendamente in colpa? Perché sento di averlo tradito, in qualche modo assurdo, nascondendoglielo? -

"Decidere se vederlo? Se ascoltarlo? O capire cosa provi? Il confine è sottile!"                          Colpita. E affondata.

Ha centrato il punto così in pieno che lo sento girare e rigirare il coltello nella piaga.
"Io...non sono affari che ti riguardano!" Dico sconcertata. Gli rispondo sempre così quando so che ha ragione, quando capisce, anche prima di me, cosa mi frulla in testa.
Lo osservo. Arriccia il naso e sulla sua faccia si forma un'espressione costernata.
"Non son...non sono affari miei?".
Sta di nuovo stringendo lo schienale legnoso.
"Forse avresti dovuto farti venire il dubbio prima di venire a letto con me!".
Uno schiaffo in pieno viso. Un pugno, nello stomaco.
Le sue parole, il modo stesso in cui le ha pronunciate mi fanno male come niente è riuscito a fare in questi mesi. Mi sembra di rivivere il passato. Mi sembra di avere davanti quel Peeta così freddo, così razionale. Quello che vedevo tutte le notti durante quella maledetta rivolta, quello che aveva smesso di vedermi meravigliosa. Quello che non mi amava più.
Sono stata una stronza egoista. Ho pensato solo a quanto lo desiderassi io, senza pensare quanto e cosa avrebbe significato per lui.
Mi sento orribile. Sono orribile.
Haymitch ha sempre avuto ragione.

- Non lo meriterei neanche se vivessi cento vite! -

Come ho potuto lontanamente immaginare di poter contaminare con il mio grigiore il giallo splendente del dente di leone? Mi muovo istintivamente verso di lui ma fa cenno di restare ferma.
"Non ha significato niente, vero?" Mi chiede.
Altro colpo basso.
"Io...certo che ha significato!"
Sorride amaramente nel sentire le mie parole.
"Ha significato come i baci nell'arena" dice.
Forse si, forse no. Non ci ho ancora neanche pensato.
"No!" Eppure sento questa risposta uscirmi contro ogni logica e ogni volontà. "Peeta io volevo, lo desideravo davvero, è la verità, non metterla in dubbio"
"Non lo faccio. Metto in dubbio i motivi per cui lo hai fatto. Gale aveva ragione, tu scegli la persona che ti aiuta a sopravvivere".
Li sento, uno dietro l'altro i colpi che danno al condannato.
"Credo sia meglio per me andare a casa".
Cosa? No! Non voglio che vada via, non così.

- Katniss Everdeen apri quella cavolo di bocca e digli di restare. Digli che provi qualcosa per lui. Dillo adesso! -

Resto ferma, in silenzio. Lo guardo andare via senza muovere un dito, con le lacrime che si fanno prepotentemente spazio per uscire. Prendo la lettera, la osservo, me la rigiro tra le mani e, con un gesto da pazza, inizio a strapparla in mille piccoli brandelli. Sempre meno di quelli in cui sento di essere io, ora.
Mai come adesso sento il bisogno di parlare, di parlare con qualcuno, di sfogarmi, di sentirmi dire che le cose si sistemeranno. Prendo il telefono e compongo quel numero un po' annebbiato alla vista.
"Mamma...." dico in un sussurro.

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