Capitolo Ventunesimo

271 24 4
                                    

Tornata a casa, la prima cosa che faccio è mettermi a mollo. Non è stata una bellissima giornata, nemmeno nei boschi. Sono rimasta sdraiata a riflettere per ore, dopo aver mancato ogni tentativo di racimolare un po' di carne fresca per la cena.

A volte perdo il controllo quando si parla del problema di Peeta. Mi fa rabbia il fatto che lui pensi di essere più debole di tutto ciò che gli accade, non è così; sta imparando a controllarsi molto bene, è solo che la paura è più forte. Lo capisco. Anche per me è la stessa cosa.

- Se solo Peeta riuscisse a vedere in se stesso,quella forza che vedo io in lui!–

Provando a mettere da parte questi pensieri, mi lascio avvolgere dalla schiuma nella vasca.

Mi guardo intorno. Non riesco a capire dove mi trovo. Sono circondata dall'acqua.

"Katniss" sento il mio nome ma non vedo nessun'altro, oltre me.

"Katniss" sembra un richiamo disperato.

L'agitazione mi si contorce nello stomaco. Riconosco la voce. Inizio a correre.

Ogni strada non porta da nessun'altra parte tranne che all'acqua.

Giro. Giro su me stessa più e più volte. Non ci sono alberi, almeno non più.

Lo vedo in lontananza. Un corpo che fuoriesce dal mare. Inizio a correre.

Mi inzuppo. Faccio fatica a mantenere un passo svelto, ma proseguo.

Mi tuffo nell'acqua, a due passi dal corpo.

Lo afferro. Lo giro.

Mi sveglio di scatto, urlante.

Respiro. Respiro sempre più in modo affannato.

E' solo un maledetto incubo ma io non riesco mai a distinguerli dalla realtà.

Il corpo di Finnick, viola tra le mie mani, sembrava così vero, sembrava avere un peso. Sembrava reale.

Ma non lo era.

Mi risciacquo velocemente e vado nella mia stanza.

Sognare Finnick ha fatto tornare a galla mille ricordi; soprattutto mi ha fatto tornare in mente il modo orribile in cui è morto.

Prendo il telefono che ho sul comodino, indecisa se premere i numeri o meno.

- Non posso chiamare Annie –

Per fortuna vengo ridestata dai miei pensieri dal suono del campanello.

Apro la porta lentamente, un po' timorosa a dirla tutta.

"Ciao". Non dice altro, resta fermo ad aspettare che risponda. Ma io non dico niente.

"Mi fai entrare?". Gli faccio spazio e lo lascio passare.

Il mio battito è irregolare.

"Peeta- dico senza lasciargli il tempo di poter replicare - scusa per questa mattina" mi esce tutto d'un fiato, prima ancora che si giri a guardarmi.

Esita un po' ma poi si volta nella mia direzione.

"So che ho esagerato. Capisco le tue paure, ma.." si avvicina a me per prendere la mia mano che, delicatamente, si porta alla bocca. La bacia.

"Scusami tu, ho alzato la voce e non avrei dovuto. Solo che, quando si tratta di te, divento così protettivo".

"Me ne sono resa conto, molto tempo fa!" gli dico accarezzando quei riccioli biondi che sporgono da sopra un orecchio.

Mi poggia un tenero bacio sulla fronte prima di sussurrarmi qualcosa.

"Vorrei che venissi con me. Adesso" "Dove?" chiedo in modo talmente ingenuo da sembrare una bambina.

Scuote la testa e, prendendo la mia mano, mi fa strada fuori casa.

Camminiamo per un po', attraversiamo il villaggio fino ad uscire fuori dai nostri vialetti. Mi guardo intorno. L'illuminazione notturna è davvero migliorata da quando siamo tornati girare per le strade del 12, di notte, non è più un fare clandestino. E' concesso. Molti bar restano aperti fino a tardi per consentire alle persone di incontrarsi fuori casa dopo l'orario di cena. Inizia a piacermi questa nuova facciata del 12, anche se è molto diverso da quello che consideravo casa, ma infondo quello che desideravo era qualcosa di simile; poter vivere in modo dignitoso anche qui, nell'ultimo distretto di Panem; avere una vita che non fosse l'estremo opposto di quella dei cittadini di Capitol. Attraversiamo interamente quello che una volta era il giacimento e ci ritroviamo nella piazza centrale. È stata costruita una grossa fontana làddove prima si ergeva la forca dei condannati a morte dai vecchi pacificatori. Attraversiamo anche quella, da un capo all'altro, fino ad arrivare davanti ad un edificio color legno.

Sento il respiro venir meno.

"Katniss – dice mentre aumenta la stretta sulla mia mano – ti prego, se e quando ti dirò di andare via, devi farlo" la sua voce è supplichevole. Annuisco. "Lo giuri?" chiede ancora non troppo sicuro della mia risposta. "Te lo prometto".

Mi fa strada al suo interno. È buio e, tranne il gradino d'ingresso, non riesco a vedere molto fino a quando Peeta non accende le luci. La mia vista ne risente un po', già si era abituata al buio pesto; ma quando inizio a distinguere le cose con chiarezza, resto estasiata.

Peeta non ha dipinto le pareti con un semplice e banale colore, ma ha fatto dei veri e propri disegni.

"Peeta, è bellissimo qui dentro!" Sono entusiasta. Mi avvicino a lui, contenta. Lo guardo; è teso, riesco a leggerglielo nei muscoli, nella postura, negli occhi che però sono ancora pieni di quel blu marino che tanto amo.

"Sono fiera di te e del tuo lavoro" gli dico, poggiandogli una mano sul petto marmoreo. Lo sento poggiare la sua mano sulla mia mentre cerca di mandarmi, in risposta, un sorriso.

"Sono certa che, se tuo padre e tua madre fossero qui, sarebbero orgogliosi di te come lo sono io" rincaro la dose per fargli capire quanto sia grande ed importante il lavoro che ha fatto fino a quel momento.

Ma è quando lo vedo togliersi dalla labbra quel sorriso tirato di poco fa che mi rendo conto di aver messo in ballo le persone sbagliate, nel luogo sbagliato.

"Peeta, scusa, mi dispiace. Stai bene?" Chiedo preoccupata. Lo sento aggrapparsi alla mia mano. La sta stringendo forte, molto forte. Ma il dolore fisico è niente rispetto a quello che provo nel vedere i suoi occhi azzurri trasformarsi in due pozzi vuoti.

"Peeta, quello che vedi non è reale!"

Cosa resta di noi?Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora