II Antonius, il Latino

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Si chiamava Antonius, detto “il latino”. Barba e radi capelli bianchi incorniciavano il suo viso. Era piuttosto singolare che un latino si fosse stabilito nelle terre dei Volsci, ma Antonius, che doveva il suo nome al sangue etrusco che gli scorreva nelle vene, dopo una gioventù passata tra avventure e battaglie sentiva quel posto come se fosse la sua casa. Era là che venticinque anni prima aveva conosciuto la sua compagna e trovato la pace dell’animo a lungo cercata durante la sua vita turbolenta.

Soprannominato con affetto “il saggio” dalla sua figlioccia Camilla, conduceva un’esistenza tranquilla, dedicandosi al lavoro nei campi e alla pastorizia. La mattina si alzava all'alba, quando il dio Sole s'affacciava sulla valle. Dava un'occhiata all'orto dietro la sua abitazione, apriva l'ovile e si avviava ai pascoli. La casa era poco più che un pagliaio, i muri erano in pietra e il tetto in paglia. D'inverno, quando era troppo freddo, appena alzato scopriva le bracia ancora calde nel focolare situato al centro della stanza, vi aggiungeva dei ramoscelli secchi e alla loro fiamma scaldava il pane. Poi offriva la schiena dolorante a quel tepore. Seduto accanto al fuoco mangiava assieme al pane formaggio e noci, e dopo un lungo sorso di vino, era pronto per il duro lavoro quotidiano. Fuori, accanto al portone fatto di assi di quercia incrociate, trovava posto la macina di pietra vulcanica. Poco più dietro, giacevano le cataste di legna per l'inverno. Antonius amava molto la montagna. La vista della valle colmava il suo cuore di gioia e il suo passo, ancora fermo e veloce, lo portava lontano. Passava ore intere a osservare gli uccelli volare verso l’orizzonte.

Lì, ai piedi della collina che si stacca dall’ultimo dei monti Ausoni verso nord, scendendo come un bel seno dal collo di una giovane donna, Antonius aveva tutto quello di cui aveva bisogno, e non desiderava altro. Da quando sua moglie Arisia se ne era andata per sempre tra le braccia di Plutone, strappata via dalla febbre maligna, aveva imparato ad apprezzare la pace dei sensi che solo la solitudine può dare. Solo qualche volta, la sera, il pensiero di una donna e delle sue dolci braccia, dei seni morbidi e del grembo accogliente, riaccendeva forte in lui il fuoco ardente della passione. Tuttavia, sapeva bene che, se la tristezza fosse stata restia a svanire, la sua scorta di vino sarebbe bastata a riscaldargli l’animo.

C’era vicino la casa una ricca sorgente. La terra era rossa, grassa e fertile. “Piccolo pozzo”1 era una meraviglia, e lo era ancor di più in primavera. In quella stagione il profumo dei fiori era inebriante e il sole, che faceva capolino tra le querce, diffondeva una luce speciale, quasi divina. Quando i suoi raggi incontravano gli spruzzi dell’acqua sorgiva, si animavano di mille meravigliosi colori. Allora Antonius ringraziava gli dei dal profondo del cuore per la loro generosità verso il genere umano. “Piccolo pozzo” era anche un luogo sicuro, lontano com’era dalla piste più frequentate. Non molto distante, un paio di leghe più a sud, nei pressi del tempio di Diana sul Montenero, era di stanza una piccola guarnigione con un punto di avvistamento che dominava il sud della valle. La sua presenza toglieva a predoni, Bruzi e Sanniti la voglia di aggirarsi nei paraggi. I Volsci sapevano essere guerrieri impavidi.

Antonius viveva in pace, dividendo quel poco che aveva con chiunque passasse di lì. Non possedeva armi, tranne un lungo coltello di bronzo che usava per la tosatura o per scuoiare le pecore. Nessun timore albergava più nel suo cuore. Sentiva di aver vissuto abbastanza. Aveva visto troppo sangue scorrere, niente poteva ormai convincerlo che il destino dell’uomo non fosse in balia del capriccio degli dei: erano loro a decidere chi dovesse vivere o morire.

1 Luogo denominato attualmente “Pozzotello”

Il Sacro fuoco della Regina II edizioneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora