Trascorse due lune, sembrava che Camilla avesse ormai accettato i suoi nuovi orizzonti. La vita a “piccolo pozzo” scorreva serena.
«Yhaaaa, prendi questo maledetto predone...»
Camilla sbucò all'improvviso da dietro l'angolo, agitando una spada di legno.
«Camilla! - Urlò Arisia - Mi hai spaventata!»
Antonius, seduto nel cortile, scoppiò in una fragorosa risata. La donna riprese, stizzita:
«Che c'è da ridere? E tu, Camilla, smettila! Quante volte t'ho detto che non devi giocare qui? Devi ancora andare a recuperare le pecore...»
«Ci andrò io, Arisia - la interruppe il marito - non preoccuparti. Lasciala giocare. Lasciale vivere i suoi ultimi sprazzi d'infanzia. Camilla non è fatta per badare alle pecore.»
«Ma va’, va’, Antonius, tu e le tue fissazioni! Archi, lance, caccia... è ora che cresca. Deve aiutare sua madre, altro che...»
«Camilla sta facendo una cosa importante. Sta facendo addestramento. Vai donna, vai.»
Con un largo sorriso, Antonius interruppe la moglie, allungandole nello stesso tempo un'affettuosa sculacciata.
Arisia si allontanò di scatto, ridendo.
***
Qualche giorno dopo, Arisia si presentò al marito, mani sui fianchi, esclamando in tono trionfante:
«Camilla è donna! Incomincia a trovarle marito!»
“Povera Arisia”, pensò Antonius. La donna, ostinata com’era, ancora non voleva rendersi conto che la figlioccia non era come le altre ragazze. Il destino di Camilla era già scritto, e non era di certo quello che Arisia aveva immaginato per lei. Le strade che la bella Camilla doveva percorrere l’avrebbero portata per sempre lontano da loro.
Passò ancora un’altra luna, e un giorno, con il sole già alto nel cielo, nella piccola valle si udì come un’eco di tuono. Il rombo si faceva sempre più forte, sembrava una mandria di buoi impazzita che si dirigesse verso la loro abitazione. Era il rumore tipico di cavalli lanciati al galoppo. Preoccupato, Antonius tornò di corsa a casa e intimò alle donne di rientrare immediatamente. Il rumore degli zoccoli che percuotevano la terra si faceva sempre più forte. Poco dopo, apparve Metabo su un bel cavallo nero, trascinava dietro di se altri due puledri.
Era armato fino ai denti: la lancia tra la coscia e il cavallo, una corta spada lungo il fianco e uno scudo di legno legato dietro la schiena. Sulla corta tunica, anch’essa nera, un pettorale di cuoio scuro, lucido di grasso, e un mantello scuro svolazzante sulle spalle, ornato da una pelle di lupo. Lunghi capelli neri, impastati di sudore e polvere, gli scendevano sciolti sul collo e si intrecciavano in parte con la lunga barba. Da un cavallo di scorta pendevano due elmi, scudi, spade, lance, due archi e le relative faretre. Era davvero una vista impressionante.
Si fermò davanti alla casa e, mentre la polvere che lo inseguiva si diradava lentamente, parlò con tono secco e altezzoso.
«Salve, Antonius! Finalmente ci rivediamo. Dov’è mia figlia? È giunto il momento!»
Camilla non aspettava altro. Uscì di corsa, eccitata e affascinata dalla vista dei cavalli.
«Camilla, quello bianco è tuo. Sali in groppa!» gridò Metabo dall’alto del suo scalpitante destriero.
“Beata gioventù!”, pensò Antonius. Al re volsco era bastata solo una frase per conquistare in un attimo la fiducia della figlia.
Come se fosse stata addestrata fin dalla nascita a tale compito, con un balzo Camilla fu in groppa al cavallo. Afferrò le redini, strinse i talloni sui fianchi dell’animale e si lanciò al galoppo. Furono di ritorno molto tempo dopo, con il sole che già volgeva al tramonto. La giovane era impolverata, stanca, eppure i suoi occhi splendevano di una strana luce: la luce della felicità.
Quella sera a tavola, intorno a un modesto pasto, Metabo si rivolse ad Antonius:
«Ho davvero un grande debito con te e, se pazienterai ancora, la mia riconoscenza sarà grande. Non voglio darti ulteriore disturbo. Domani io e Camilla ci trasferiremo su in collina. Abiteremo per un po’ nella nostra grotta, giusto il tempo di completare il suo addestramento alle armi. Poi partiremo verso sud-est, verso la terra dei Sanniti, in cerca di gloria e armi e allo scopo di reclutare guerrieri. Per fare la guerra, caro Antonius, ci vuole oro, molto oro, e noi offriremo i nostri servigi a chi ce ne darà di più. Se non sarà così, ce lo prenderemo con la forza. Vivremo di caccia, in completa libertà, fino al giorno in cui riconquisteremo il mio trono e io avrò la mia vendetta. Vendicheremo tua madre nel sangue, vero, Camilla?»
Ogni parola di quell’uomo orgoglioso e accecato dal desiderio di vendetta era un colpo di stilo inferto ai cuori di Antonius e Arisia. Il pastore, che pensava di non poter opporsi al volere degli dei, rimase in silenzio. Avevano goduto di Camilla per tante primavere e adesso era loro dovere restituirla per sempre al suo destino. D'altronde la fanciulla era affascinata dalla determinazione e dalla forza mostrata da suo padre. Da giovani si può essere coraggiosi, non saggi; generosi, non prudenti. Camilla era così soggiogata dallo spirito guerriero di Metabo che lo avrebbe seguito persino nel regno di Plutone. Antonius, ormai rassegnato, sentiva di non doversi rimproverare nulla, né tantomeno poteva biasimare sua figlia adottiva. In gioventù, lui stesso si sarebbe comportato così. In vita sua però, aveva visto scorrere troppo sangue e non poteva certo approvare il futuro che Metabo prospettava a Camilla. Lei ancora ignorava quel vuoto terribile e nauseabondo che si avverte nell’animo subito dopo aver lanciato eccitati il grido di vittoria, con le braccia alzate lorde di sangue, circondati dai cadaveri al termine della battaglia.
STAI LEGGENDO
Il Sacro fuoco della Regina II edizione
Fiction HistoriqueE' una storia di amore, di amicizia, di guerra vissuta nel 1200 a.c. nel Lazio. La trama si sviluppa in un clima colmo di premonizioni e di destini incrociati, dove il naturale e il soprannaturale, la morte e la vita si fondono in un continuo insegu...