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Quel giorno fu un grandissimo shock per tutti. Tranne per me.

Anne, mia madre, scoppiò a piangere dopo averle soltanto mostrato il telegramma e il suo compagno Robin l'abbracciò tutto il tempo, senza fiatare.

Mia sorella la rilesse almeno dieci volte, cercando di capire al meglio la situazione e poi, abbracciandomi, mi disse: "Stai attento fratellino!"

Sono sicuro che una lacrima le scese sul viso, ma orgogliosa com'è, probabilmente si asciugò subito la guancia con la manica del vestito che indossava.

Io rimasi impassibile.

Non mi resi per niente conto di quello che avrei dovuto affrontare.

Guardavo i loro volti così afflitti e preoccupati, ma non mi scomponevo.

Era chiaro che per loro quel giorno sarebbe stata l'ultima volta che mi avrebbero visto, poiché l'indomani sarei dovuto partire. Era una situazione disagevole per loro e li capivo, in fondo senza di me come sarebbero andati avanti?

Mi ricordai di un impegno che purtroppo dovevo disdire e il pomeriggio stesso andai a trovare Kendall. Non potete immaginarvi la faccia che fece quando le dissi che il matrimonio doveva essere rinviato (se non annullato).

Era su tutte le furie, e davanti al padre, che nel frattempo mi augurò buona fortuna per il viaggio, grazie al cielo, riuscii a trattenere le risa. Sapevo di piacerle, e sposarmi sarebbe stato per lei un'occasione in più per vantarsi con le altre ragazze del paese.

"Chissà se ora la bisbetica mi sta ancora aspettando oppure si è già trovata qualcun altro..." mi chiedevo

Comunque sia, la notte passò in fretta e il giorno seguente, munito di un borsone e una fetta di pane con sopra olio e zucchero (la mia colazione preferita) salii su un vagone insieme ad altri 10 ragazzi, tra cui i miei amici. Anche loro erano stati scelti. Le nostre famiglie ci vedevano andare via, mentre piangevano e pregavano il Signore di farci tornare indietro sani e salvi. Noi, dal vagone che si allontanava sempre di più, lasciavamo impressi nella mente i loro volti, nella speranza di poterli rivedere.

Non ero mai stato fuori città, se non per qualche commissione importante. E ora mi sentivo solo più che mai. Io, contro il mondo intero e un semplice elmetto a proteggermi.

Ricordo la prima sera in caserma, dove ci addestrarono e ci fecero rendere conto di quanto possa essere così fragile e sfuggente la vita di un uomo: bastava un proiettile ed eri morto. Mi tagliarono i capelli e mi faceva strano sentire il vuoto dietro il collo. Mi piaceva portare i capelli lunghi anche perché, non potendoci permettere un parrucchiere, era la mamma a tagliare i capelli miei e di mia sorella, solo che... sembravo una noce di cocco: ero traumatizzato dalla scodellina e le forbici di metallo, tanto che scappavo di casa tutte le volte che aveva intenzione di usarle e alla fine si arrese.

Questa volta il taglio, però, non mi dispiaceva tanto, mi stava piuttosto bene.

Appresi presto, e non ci misi tanto a capire come si dovessero utilizzare un fucile, una mitragliatrice o una granata...

In realtà ho imparato soprattutto per essere sicuro che, nell'eventualità, mi sarei protetto con quelle... No, lo ammetto, mi rifiutai di usarle a prescindere, ma non potevo di certo chiamare la "mammina" davanti a un nemico ...sicuramente lei li avrebbe minacciati con la scodellina, non so se ci intendiamo.

A parte gli scherzi, speravo solo di non doverle usare, avevo tremendamente paura di uccidere qualcuno e di vederlo morire. Me lo sarei portato sulla coscienza per sempre.

Le giornate passavano lentissime, era diventata un'agonia. Non sapevamo cosa fare, e tra una marciata e un'altra, i comandanti ci intimavano di essere pazienti e di prepararci agli ordini di Churchill.

Poi finalmente dopo una trentina di giorni, ci fecero imbarcare su un cacciatorpediniere della Royal Navy. Sembrava tutto così emozionante. Ero stato poche volte a mare e doverlo attraversare per me era davvero stupendo.

Il tempo però non fu di grande aiuto: faceva tanto freddo e il vento ci faceva venire il mal di testa per quanto fosse fastidiosamente pungente. In molti si ammalarono e per evitare che peggiorassero e contagiassero altri sulla nave, di notte all'insaputa di tutti, i funzionari dei comandanti li gettavano in mare.

Come lo so? Lo vidi con i miei stessi occhi e giurai di non raccontarlo a nessuno...

Una sera, mentre stavano dormendo tutti, io dalla mia cabina sentii delle grida e dei passi veloci. Pensai che ci stessero attaccando o che, nel peggiore dei casi, fosse scoppiato un incendio, e allora, preoccupato, cercai di svegliare i miei amici, che però non si svegliarono.

Le urla si mischiarono a delle implorazioni e non riuscendo a trattenere la curiosità, mi affacciai per capire meglio: c'erano tre o quattro marinai che cercavano di spingere giù un ragazzo più giovane di me, sui 18 anni, che si era evidentemente ammalato a bordo. Stava sudando ed era pallidissimo, mentre quelli cercavano di prenderlo di peso e capovolgerlo a testa in giù.

Il poveretto piangeva e tentava con tutte le sue forze di fissare i piedi per terra, ma non aveva nemmeno la forza di reggersi in piedi. Cercai di avvicinarmi per vedere da vicino e magari cercare di aiutarlo, ma una voce dietro di me mi bloccò...

Rimasi fermo, pietrificato, e quello bisbigliando mi diceva: «Pss! Non puoi stare lì, ti vedranno!!».

Io mi girai e vidi un ragazzo che si stava nascondendo, ed era difficile vedere il suo volto nel cuore della notte.

Mi avvicinai a lui per vederlo meglio, notai che gli stava sanguinando un labbro e che il viso veniva coperto da un ciuffo di capelli castani. Cercai di nascondermi anch'io, vicino a lui, dietro una piccola scialuppa.

«Non dovresti essere qui, che stai facendo?», mi disse.

Effettivamente non mi sarei dovuto trovare lì, ma il sonno mi era stato rubato e, forse, qualcosa (o qualcuno) ha voluto che ci incontrassimo.

Quella fu la volta che conobbi il soldato Tomlinson.


You're my wind roseDove le storie prendono vita. Scoprilo ora