Questa è la storia di un giovane ragazzo che, nel lontano 1939, era stato chiamato alle armi.
Durante la guerra, scoprì se stesso e una realtà a lui completamente nuova.
All'età di ventisei anni, documentò tutta la sua esperienza e i suoi pensie...
Non potevo credere di essere tornato nel mio Paese. Ero commosso e quando poggiai il piede a terra, mi venne spontaneo baciare il suolo. Mi seguirono tutti gli altri in lacrime.
Il porto di Dover ci aveva accolti, mentre i suoi cittadini ci servirono da mangiare.
Non mangiavo bene da troppo tempo. Avevo completamente perso il senso del gusto a furia di zuppe in scatola, cicoria o pane secco, e tutte le volte facevo finta che l'acqua fosse in realtà una bella torta al cioccolato o del pollo arrostito.
Era divertente! ... no, non lo era per niente. La debolezza mi destabilizzava.
Anche per Louis sembrava lo stesso: nei suoi occhi potevi vedere la felicità davanti a un bel piatto caldo di porridge. Le piccole locande del posto, si erano riempite di uomini ubriachi e stonati che non la smettevano di ridere, mentre le cameriere prontamente gli riempivano i calici.
Restammo lì per una settimana intera, giusto il tempo di riorganizzarci e di rifocillarci: non perdemmo tempo e ricostituimmo l'esercito, ricomprando le armi necessarie.
In quell'occasione, mentre stavamo lavorando, le ragazze venivano ad infastidirci, o almeno a me infastidivano, soprattutto quando si avvicinavano a Tomlinson. Ero veramente geloso di lui, ma non lo avrei mai ammesso.
Faceva caldo ed eravamo sudati, nonostante fossimo rimasti in canottiera con il resto della divisa abbassata sui pantaloni, dato che non potevamo toglierla, e mentre trasportavamo tubi di ferro per l'industria navale del luogo, vidi quattro ragazze corrergli incontro. Quando se ne andarono mi avvicinai:
"Vedo che te la spassi..."
"No, ci gioco un po'... mi diverte vedere come si attorcigliano i capelli con le dita o vedere il rossetto sbavato che si sono messe di fretta..." - disse- "ci parlo, le illudo e poi, mi portano da mangiare gratuitamente! Ahahaha" mi mostrò un panino con non so cosa dentro e lo addentò.
Io strinsi i pugni, gli avrei volentieri spaccato la faccia, e corrucciai la fronte. Intanto finiva tranquillo il suo pasto e mi sorrideva.
"Guarda che non mi interessano..." - prese una carriola piena di sacchi di sabbia e aggiunse – "non ti ho mica baciato per beccarmi una malattia...ah, poi, aspetta, cos'è quella cosa che hai appesa al collo!?" disse, mi fece l'occhiolino e se andò.
Rimasi con la bocca semichiusa e lo guardai soddisfatto, consapevole di ciò che voleva intendere.
La guerra, però, non era ancora finita e dovevamo stare più uniti che mai.
Infatti, Hitler, aveva pensato bene di invaderci e per far sbarcare i suoi soldati in totale sicurezza, cercò prima di tutto di ottenere il controllo dei cieli britannici.
Ma nessuno sapeva niente di questo attacco prima che ci iniziassero a bombardarci. La Luftwaffe si scontrò con la nostra aviazione, la Royal Air Force, rimanendone sconfitta.
Il fischio di quelle bombe sulla mia testa non lo scorderò mai: sembravano tante gocce che cadevano in sincronia per formare una poggia metallica. Erano delle devastatrici che non risparmiavano assolutamente nulla, neanche il bambino più indifeso mentre chiede, per l'ultima volta, una favola alla mamma.
Vedevo in continuazione case che si sgretolavano e fiamme tutt'intorno a bruciare ciò che ne rimaneva. Era un completo disastro, nascosto dall'odore umido della pioggia misto a quello bruciato di legno e sterpaglia. Avevo paura. Mi sentivo stordito da quei rimbombi sonori e gli spari delle mitragliatrici a bucare qualche divisa.
Erano frequenti quelle situazioni e noi cercavamo in tutti i modi di proteggere i civili, che ormai erano quasi tutti donne con bambini piccoli e poveri anziani, portandoli in rifugi antiaerei. Erano spaventati e si erano già arresi, il loro futuro non sarebbe stato più lo stesso: il cibo valeva più dell'oro, dava sicurezza e creava un minimo senso di quotidianità, ma in molti non ce la facevano a resistere. Il più delle volte quei rifugi erano delle gabbie pronte a intrappolarli per sempre.
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Andavamo di città in città trovando sempre la stessa desolazione, la stessa tristezza: passavamo silenziosi e a passi lenti, in mezzo a fogli bruciacchiati, scarpe impolverate, vetri rotti, pezzi di legno e oggetti preziosi.
La notte era la parte più pericolosa della giornata: quando sentivi la sirena, era il momento, dovevi prima di tutto farti un segno della croce e poi fuggire al riparo insieme agli altri.