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È ormai un anno che sono costretto a letto, pallido e debole per una malattia scoperta, ahimè, troppo tardi: qualche mese fa, mi diagnosticarono una malattia del sangue incurabile, che chiamano "sangue bianco".

Il medico dice che mi rimangono solo pochi mesi da vivere, perché lo stato della malattia sta peggiorando. Non ci sono cure per me e mi imbottiscono di farmaci che non so nemmeno a che servano. Gli unici che riesco bene a distinguere sono i sonniferi.
Mi cadono i capelli e ho continuamente dolore alla schiena. Per spostarmi ho bisogno di una carrozzina e di qualcuno che mi trasporti. Ho continuamente sonno, non so bene quanto mi ci sia voluto per scrivere tutto questo.

Tuttavia, non mi dispiace avere così tante attenzioni da parte di infermiere, dottori, amici e parenti, mi sento di nuovo piccolo: l'ospedale in cui mi trovo è molto modesto, dopotutto la guerra è finita da poco tempo e le costruzioni vengono fatte man mano più in fretta possibile e già usufruibili in poco tempo.

La mia stanza profuma di camomilla, per via del vasetto in cui mia figlia ha deposto centinaia di fiorellini:

"Così il profumo ti ricorderà me ogni volta che sarai solo e starai per addormentarti!" mi aveva assicurato, e aveva ragione: anche se la sera la mia stanza fosse ormai vuota, quell'odore mi ricordava la mia casa e mi tranquillizzava.

Le visite erano sempre stracolme di abbracci o baci di conforto e momenti felici pieni di risate: si finiva sempre per prendere in giro Gemma che poverina era molto impacciata con il suo bambino e, nonostante il marito avesse trovato un buon lavoro e avesse disponibilità economiche, lei vestiva con le stesse tovaglie a quadri che le cuciva mia madre. Era davvero buffa, ma noncurante di ciò che pensassero di lei, soprattutto quando litigava con Darcy per questioni nemmeno degne di un avvocato: per esempio, una volta si litigarono l'ultimo biscotto alla vaniglia rimasto nel barattolo in vetro della confettura di ciliegie, ormai consumata da tempo, e si scatenò una vera e propria tempesta tra le due. Non mancava mai l'occasione per prenderle in giro, erano uno spettacolo.

Bambini, vecchi, genitori, figli, mariti, mogli, tutta la città pian piano si iniziava a ripopolare e altri soldati, sviniti, feriti, sopravvisuti, sembrano anche loro tornare a casa, tutti con una bella medaglia di riconoscimento.
Non mancano poi le crocerossine, anche loro esauste, che tornano mute dai loro familiari con una valigetta di cuoio, probabilmente vuota. Posso immaginare solo un rumore di tacchi a passi lenti, sfilare con molta incertezza, mentre una nube di fumo avvolge il tutto, perchè il treno sta riprendendo fiato.
Riesco a vederli tutti da qui, dalla mia stanza, perchè la finestra affaccia proprio su quella parte della città, la cara e vecchia stazione. La stessa da cui sono partito per il mio viaggio.

Intanto per mia madre è arrivato anche il terzo nipotino, qualche giorno fa, e tutti stiamo cercando il nome giusto da dargli. Kendall si è fissata con il nome Paul, come suo padre, e poi gli altri che fanno a gara per trovarne qualcuno tra le pagine dei libri, nomi importanti, famosi, indimenticabili.

Mi divertono tanto quando vengono con pile di libri in mano dentro l'ospedale per poi sedersi accanto al mio letto e cominciare a farneticare per tutto il tempo della visita. Sfogliano continuamente le pagine mentre io rivesto il ruolo di giudice.

"Che ne dici di Dave?"
"No"
"E di George?"
"No"
"Allora Nick!"
"No"
"Oh ma insomma!! Deciditi un pò!"
"No, ahahahaha"

Vorrei che questi momenti non finissero mai (frase fatta, lo so), ma per ora mi limito a lasciarne il ricordo in queste pagine: credo di aver raccontato abbastanza sulla mia storia ed è ora che mi dedichi al riposo.
È vero la mia non è stata un'esperienza facile, forse per voi noiosa, ma forse sono io che non sono bravo in questo genere di cose. Ma so per certo che una cosa l'ho imparata, e cioè che l'Amore (quello con la A maiuscola) non ha alcun bisogno di regole né di stereotipi per essere vero.

Continuerò a vivere immerso nella beatitudine di questa famiglia, con l'affetto più sincero di una figlia e con l'amore (purtroppo, da me non corrisposto) di una donna che mi ha sopportato per tutto questo tempo come suo marito.

Ma ora basta, finisco qui questa mia storia e domani, voglio sentirmi la persona più felice del mondo, mi alzerò con un grande sorriso sulle labbra, per un unico e semplice motivo, ovvero quello di chiedere a mia moglie:

"E se nostro figlio si chiamasse...Louis?"

Perchè, dopotutto, Louis...


Tu sei la mia rosa dei venti

You're my wind roseDove le storie prendono vita. Scoprilo ora