Capitolo 55

6K 245 188
                                    

Dire di non essere riuscita a dormire sarebbe quasi un eufemismo. Non ho praticamente chiuso occhio poiché continuavo a ripensare alle parole di Edoardo in quell'unico messaggio. Dovevo aspettarmelo, certo, ma non ero abbastanza pronta. 

Ora, all'alba delle sei, scosto con rabbia e frustrazione le lenzuola per poi scendere dal letto e vestirmi. Infilo un semplicissimo paio di pantaloncini elasticizzati, una maglia a maniche corte, prendo il mio iPod e infilo le scarpe da ginnastica prima di uscire di casa. 

Odio la corsa, odio sentirmi come se qualcuno mi stesse schiacciando il petto ed odio il correre quando potrei non farlo, ma ne ho bisogno perché so che è l'unico modo per smettere di pensare.

Faccio partire una delle mie molteplici playlist ed inizio la mia tortura. Potrebbe sembrare un controsenso che io odi così tanto la corsa eppure continui ad andare a correre; ma mi sono sempre ritrovata nella situazione di doverlo fare. Mi piace il Baseball e mi piace l'adrenalina che mi provoca, quindi correre per questo sport non è mai stato un peso. Il vero peso è sempre stato andare a correre per rimanere allenata. 

Non mi è mai piaciuto correre di mia spontanea volontà, ma l'ho sempre fatto perché è l'unico modo che ho per estraniarmi da tutto. Quando corro ci sono solo io, il paesaggio e la fatica. Nessun pensiero persistente o assillante, solo il fiato pesante, i battiti del cuore accelerati, le mie scarpe che battono sull'asfalto e l'aria fra i capelli. 

Inizio lentamente e poi aumento sempre maggiormente il passo, fino a ritrovarmi con il fiatone, mezz'ora più tardi, davanti al campo dove mi sono sempre allenata. Faccio due respiri profondi, ritornando a camminare dopo aver spento il mio iPod. 

Durante l'estate il campo è sempre aperto e questa cosa mi fa immensamente piacere perché in questo modo non devo scavalcare proprio nulla.

Mi serve tranquillità e solitudine, quindi decido di entrarvici spingendo il cancelletto in ferro arrugginito ed avviandomi verso la mia meta.

Mi blocco sulla casa base, osservando tutto da quel punto. 

Alla fine la vita potrebbe benissimo essere associata ad una partita di Baseball. Tutti prima o poi tornano alla casa base, c'è chi ci mette più tempo, chi meno, chi con delle difficoltà, chi con facilità. Tutti hanno il loro percorso, ma non si può sfuggire dal passare di nuovo dalla casa base.

La mia casa base è la verità. Prima o poi dovrò arrivarci, affrontarla, passarci e superarla.

"Cottini! Cosa diamine ci fai qui a quest'ora nel mio campo?"
Chiede una voce alle mie spalle, facendomi girare di scatto.

"Sempre caloroso e felice di vedermi, Mister"
Borbotto alzando gli occhi al cielo ed osservando la figura del mio allenatore, appoggiato allo stipite del cancelletto con le braccia incrociate al petto.

È un uomo circa sulla quarantina, biondo, con occhi verdi penetranti, fisico ben mantenuto, atletico, snello ma non troppo, voce sempre e comunque autoritaria e decisa, sposato, con tre figli maschi, esigente, determinato e, soprattutto, sempre felice di vedermi.

"Non immagini quanto"
Commenta sarcasticamente venendo verso la mia direzione solo dopo aver preso dal ripostiglio una mazza e una pallina.

"Visto che ci siamo, facciamo qualche tiro?"
Chiede passandomi la pallina e il guantone e facendomi segno di raggiungere il centro del campo.

"Non penso sia il caso Mister. E poi, cosa ci fa lei qui a quest'ora?"
Domando, guardandolo con aria di sfida.

"Tu hai risposto a me, ragazzina?"
Domanda con aria di superiorità, così come è suo solito fare.

Si scrive errore ma si legge amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora