20 (2/2). Problemi da affrontare

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Quella sera eravamo seduti a cena in un locale raffinato ma semplice in zona San Marco; tra un boccone di spaghetti e l'altro Emir mi stava raccontando di una riunione a cui aveva partecipato la mattina, nella quale due segretari si erano quasi presi a pugni per un caffè mandando all'aria tutto l'ufficio. Io lo guardavo, come sempre affascinata dal verde profondo dei suoi occhi, e ridevo, beandomi di quel momento di tranquillità e rilassatezza, riscaldata dal calore e dalla gioia che leggevo nel suo volto.

Ad un tratto lo schermo del televisore che si trovava dietro Emir divenne buio e il canale venne cambiato per seguire il telegiornale invece della partita del Milan.

Le immagini scioccanti di un'esplosione in piazza Taksim, a Istanbul, mi sconvolsero molto meno rispetto alla faccia inespressiva e sbiancata di Emir. Senza nemmeno voltarsi sbarrò gli occhi e iniziò ad ansimare. Io gli presi una mano, spaventata, ma lui si alzò e se ne andò tremando dal locale, lasciandomi lì senza una parola e senza fermarsi davanti alle mie urla.
Pagai in fretta il conto e mi allontanai dagli sguardi dei curiosi, poi lo rincorsi fino a casa.

Quando lo seguii oltre la soglia, Emir si girò e mi guardò in cagnesco, con gli occhi dilatati e i denti scoperti. «Vattene» sibilò.

«No, non me ne vado» risposi io calma, chiudendo la porta dietro di me.

«Sì, invece. Ho bisogno di stare da solo. Vai.»

«Smettila di fare il bambino, Emir, io resto qui con te.»

«Il bambino? Io? Senti chi parla! Questa è casa mia! Tu ora te ne vai!» urlò allora, spazientito.

«No, Emir. Non mi caccerai nemmeno insultandomi. Non ti lascio da solo».

«Devi andartene, Serena, non ti voglio qui. Hai capito o no?» ringhiò, sbattendomi con forza contro la porta.

Io strinsi gli occhi, scioccata da quella reazione violenta, e una lacrima scese a rigarmi la guancia; lui mi teneva una mano sopra il seno, premendomi la schiena contro la sporgenza dello spioncino che mi urtava dolorosamente la spina dorsale. Mi fissava astioso, le pupille dilatate, una mano stretta a pugno lungo il fianco.

«Emir, mi fai male» sussurrai.

A quelle parole lui sgranò gli occhi e si allontanò in fretta. «Serena, scusa, io... non so cosa sto facendo, mi dispiace» disse, passandosi una mano sul viso contratto. «Ti ho fatto davvero male?»

«No. Tranquillo, va tutto bene» risposi, sfregandomi la schiena. Mi avvicinai a piccoli passi, presi le sue mani tra le mie e sussurrai: «Emir, è normale aver paura dopo quello che ti è successo. Ma non impedirmi di aiutarti. Ti prego.»

«Lo so, me lo dice anche il dottor Orsini. Ma è difficile, Serena. Non voglio che nessuno mi veda così, men che meno tu. Non riesco ad accettare questo stato di cose, questa paura irrazionale che mi segue come un'ombra e gli attacchi di panico che mi colgono nei momenti più inopportuni. Ti amo e non voglio costringerti a subire i miei problemi e le mie ansie.»

«Invece io voglio aiutarti, voglio portare con te questo peso, proprio perché anche io ti amo» sussurrai.

Restammo in silenzio per qualche minuto, poi Emir mi sfiorò il viso con il dorso della mano. «Serena» disse, «vieni a vivere qui, con me. Ti ho detto che ti amo. Anche tu ricambi. La tua presenza riesce sempre a darmi sollievo. Quindi non vedo motivi per non farlo. Ti prego, rimani qui con me. Dividi ogni secondo della tua giornata con me.»

«Emir» sussurrai sconcertata, «non posso lasciare Em e Sofi senza la mia parte di spese. E come possiamo vivere assieme io e te? Sei sicuro che non ti farà fastidio la mia presenza? Io... non so se sia il caso. Non penso sia il momento giusto. Ci conosciamo da poco più di un mese.»
Tutte le parole che avevano detto erano vere e riflettevano i miei pensieri: era troppo presto.

Se solo mi lasciassi entrareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora