DICIANNOVE

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- Sì, così... continua ti prego... non ti fermare...- Non parlare... Non parlare...Si ricordava solo che l'aveva accontentata, non si era fermato. Aveva continuato ad entrare ed uscire in lei come un automa, con colpi costanti e profondi. Aveva smesso solo quando l'aveva sentita venire, era uscito da lei e si era disteso sul letto, invitandola tra le sue gambe a finire l'opera e lei non si era tirata indietro. Lo aveva leccato, succhiato e masturbato fino a quando non era venuto, mentre lui con gli occhi chiusi aspettava solo che il piacere fluisse via dal suo corpo. Lei aveva provato ad adularlo, facendogli i complimenti per la performance di quella sera e lui si sentì così fuori luogo che andò a farsi un bagno per levare via ogni traccia di quel sesso appena consumato. La ragazza bionda che era nel suo letto si chiamava Meredith e lo ricordava solo perché era anche il nome della sua prima moglie. La fermò quando voleva entrare nella vasca con lui. No, anche quello di lui non glielo aveva concesso. Le aveva detto che aveva bisogno di stare solo, di rilassarsi, ma non fu così. Furono soltanto rimorsi per non essere stato in grado di fermarsi, perché andava bene fare finta di fare la vita di sempre, ma non farla. Fosse successo un anno prima sarebbe stato tutto diverso, ma un anno prima una donna lo aveva prelevato dalla sua festa e lì era cambiato tutto.Era stata quella la sua ultima volta. La sua ultima. Con una donna della quale faticava a ricordare il volto, con un dopo carico di sensi di colpa e di rimorsi.Lo sapeva già, ma quella notte lo aveva capito e lo aveva ammesso a se stesso: Kate Beckett per lui non era solo sesso, lui la amava e doveva trovare solo il modo di dirglielo e di farsi perdonare per quella, ultima, sbandata, perché anche se loro non si dovevano niente, se non c'erano obblighi o vincoli, lui in quella notte sentiva come di averla tradita.Non c'era stato più tempo poi. Di dirle cosa provava né di farsi perdonare ed era stata la cosa migliore. Kate Beckett doveva stare lontana da lui, come tutti gli altri. Doveva farsi una vita, normale, che non comprendeva certo l'esistenza di un invalido mezzo uomo come lui. Era con quella consapevolezza che l'aveva mandata via, ferita dove sapeva che colpirla le avrebbe fatto più male, per restare solo, come voleva.Provava fastidio, infatti, anche a ricevere le visite di sua madre ed Alexis, ma quelle non poteva certo impedirle. Sottolineavano ancora di più la sua condizione e il loro stare attente a quello che dicevano, a come si muovevano e a cosa facevano lo mortificava ancora di più, perché si accorgeva della loro totale mancanza di spontaneità. Odiava quelle premure esagerate, la totale assenza di humor e di voglia di scherzare che aveva sempre caratterizzato i loro scambi, sapeva che non lo facevano a posta, ma il loro unico risultato era farlo sentire ancora di più quello che era e faticava ad accettare: un invalido. Per questo più passavano i giorni più era convinto della sua idea che ancora non aveva esposto loro: andare a vivere da solo una volta uscito da lì. L'agenzia alla quale si era rivolto aveva già trovato due soluzioni che rispecchiavano le sue esigenze, avrebbero dovuto fare poche modifiche per rendere tutto esattamente come lui voleva. Aveva potuto vedere via webcam come erano i due grandi appartamenti non troppo distanti dal loft e al momento uno era quello che gli piaceva più dell'altro, ma era anche quello su cui avrebbero dovuto lavorare di più. Si era deciso ed aveva chiuso l'affare in pochi giorni e dato il via libera per le modifiche necessarie, offrendosi di pagare un extra per essere sicuro che tutto fosse pronto quando fosse uscito da lì. Non voleva gravare su nessuno e Alexis avrebbe potuto vivere bene anche con Martha, sicuramente meglio che con un padre da accudire, con infermieri e fisioterapisti per casa.Più passavano i giorni più si era reso conto che fino a quel momento c'erano solo due persone che non lo avevano mai trattato diversamente per quello che era: uno era Robert che lo seguiva nella sua fisioterapia, che lo spronava e lo incitava, senza farsi mai commuovere dai suoi momenti di negatività e senza mai compatirlo. Sapeva che i primi giorni erano i più duri, mentalmente e fisicamente, anche perché a causa della sua operazione ancora tutto quello che poteva fare erano solo esercizi passivi che di certo non facevano aumentare la sua voglia di andare avanti, perché doveva solo stare seduto o per lo più sdraiato, a lasciare che lui lavorasse sui suoi muscoli immobili e doloranti.L'altra persona era stata Kate. Con quello schiaffo non aveva mostrato nessuna pietà nei suoi confronti, non si era lasciata influenzare dalla situazione e dal suo stato. Lo aveva trattato come avrebbe fatto in qualsiasi altra circostanza. Non si era più fatta sentire, però, né vedere. Era uscita da quella stanza come lui le aveva chiesto e non era più rientrata. Non sapeva il perché ma si aspettava il contrario e se da una parte era felice che erano bastate così poche parole per convincerla a dimenticarsi di lui, dall'altra la cosa gli faceva male, perché pensava di essere più importante per lei, perché ricordava quei baci confusi del primo giorno in ospedale ed era convinto che nascondessero un sentimento più forte. Evidentemente era proprio confuso o illuso o forse era lei che si era resa conto che quella situazione era più grande di quanto potesse sopportare. Meglio così, lei doveva vivere la sua vita e nella sua vita non c'era spazio per mezzi uomini in carrozzina come lui.Gli avevano tolto i punti, la ferita all'addome stava bene e con un nuovo bendaggio poteva iniziare a lavorare di più sulla parte alta del suo corpo, quella che era perfettamente efficiente. Aveva passato quei primi giorni dopo il via libera dei medici il più tempo possibile con Robert e poi in palestra per rafforzare la sua muscolatura, per arrivare a fare quelle cose che gli permettessero una certa libertà di movimento e il suo primo obiettivo era riuscire a passare dal letto alla carrozzina e vice versa. Gli sembrava ancora un obiettivo impossibile, perché pensava che non sarebbe mai riuscito a sostenere il peso del resto del suo corpo inerme, tanto che in uno dei suoi momenti di sconforto aveva urlato a Clark a cosa gli servissero ancora quelle gambe che gli procuravano solo dolori lancinanti che riusciva a tenere sotto controllo solo con i farmaci e la sua vita ormai era scandita da farmaci, fisioterapia e palestra, un ciclo continuo che si ripeteva giorno dopo giorno, sempre uguale, cercando di passare il più tempo possibile su quella maledetta sedia, per abituarsi mentalmente più che fisicamente. Una sera, un paio di giorni dopo che aveva cominciato la seconda fase della sua riabilitazione, quel ciclo fu spezzato da un avvenimento imprevisto, una visita inaspettata. Immaginava fosse l'infermiera in anticipo con la sua cena, invece dalla porta entrò Kate Beckett e fu come una visione la sua sagoma in contrasto con la luce del corridoio molto più forte di quella della sua stanza, che preferiva fosse sempre poco illuminata.- Beckett... come mai da queste parti? - Chiese calandosi di nuovo nella parte e condendo la voce con quel tono volutamente troppo sprezzante. Kate chiuse la porta dietro di se, facendo tornare la stanza in quella cupa penombra, accentuata dalle tende chiuse e dall'oscurità che c'era fuori. Non gli rispose ma accese la luce ed avanzò lentamente verso di lui. Lui non poteva saperlo, ma lei in quei giorni non era mai stata lontana. Aveva parlato ogni giorno con Martha e Alexis, si era informata dei suoi progressi e del suo stato fisico e morale, ma più che le due donne, con le quali Rick indossava sempre una maschera per non farle preoccupare, quello a cui chiedeva di Castle era Clark. Il dottore aveva capito che tra i due c'era qualcosa in più di quello che entrambi dicevano e contravvenendo a quello che erano i suoi doveri, aveva deciso che informare Beckett delle sue difficoltà poteva solo essergli d'aiuto, perché pensava che quella donna, in qualche modo, potesse essere l'unica in grado di scuoterlo. Rick sembrò infastidito da quel cambio di luminosità nella stanza e strizzò gli occhi spostando lo sguardo verso il basso.- Se sei venuta qui perché ti faccio pena e per compatirmi puoi anche andartene, non ne ho bisogno. - La attaccò ancora mentre lei continuava a rimanere in silenzio, ora in piedi davanti a lui.- Non è necessario che qualcuno venga a compatirti, da quello che so fai già tutto da solo.- Da quello che sai? Cosa fai, ti informi su di me? - Ruotò la sedia per non esserle davanti e non essere costretto ad alzare la testa per guardarla. Non voleva guardarla affatto.- Ti sembra così strano che mi informo su come stai? - Si spostò anche lei per essergli di nuovo davanti.- Non lo so come si sembra strano o no. Non so niente. Ma non voglio elemosinare la pena di nessuno, Beckett. Soprattutto non la tua.- La mia pena, Castle? Io non posso mai provare pena per te, e lo sai perché? Perché io ti...- Non lo dire! Non dire niente. - La fermò bruscamente alzando la voce.- Perché no? Te l'ho già detto e non so nemmeno se mi hai sentito, ma io ho sentito tutto quello che tu mi hai detto Castle, tutto. E non ho nulla da perdonarti, semmai è il contrario.- Il contrario? Sei qui per i tuoi sensi di colpa? Tranquilla, Beckett, non averli. Tutto quello che è successo l'ho scelto io, è stata una mia decisione tu non c'entri nulla. - Provò ad eludere la sua presenza ancora una volta, ma si era messo in gabbia da solo, tra il tavolo ed il muro con lei davanti. Sbattè le mani sulle ruote con stizza, ecco uno di quei momenti che odiava ancora di più la sua condizione.- Avrei dovuto ascoltarti. E tu non avresti dovuto fare quel gesto folle. - La voce di Kate era ferma e provava a non tradire alcuna emozione, però non era facile, soprattutto quando lo vedeva stringere i denti e cercare una via d'uscita che non c'era, non solo fisica. Lo incalzò ancora, provando a metterlo sempre più con le spalle al muro, costringerlo a guardarla, a parlarle, a sfogarsi.- Io ho sentito cosa mi hai detto Castle. Ti ho sentito. - Gli ripetè.- Già, è stato un errore. Il momento sai... un po' particolare... - Voleva essere convincente, con lei e con se stesso.- Il mio no. Non è stato un errore. Quando te l'ho detto era perché lo pensavo e non volevo perderti. - Si piegò verso di lui, appoggiando le mani sulle sue. Lo vide sussultare e fare una smorfia, con la testa sempre girata da un lato, ma ora poteva sentirla più vicina, il suo profumo più intenso ed era così difficile, tanto più difficile.- Non puoi perdere quello che non hai mai avuto, Beckett. - Era duro, ma sembrava non riuscire a scalfirla. Le sue mani le facevano male quasi fossero un acido corrosivo. Perché avrebbe voluto prenderle, stringerle e dirle di non andarsene mai mentre invece la respingeva in ogni modo.- Allora guardami Castle, fai l'uomo. Io non ho pena della tua condizione, non sono qui per commiserarti. - Gli prese il volto tra le mani, cogliendolo di sorpresa, obbligandolo di fatto a guardarla ed era così vicina accovacciata davantia a lui da sentire il respiro di lei sbattergli in faccia. - Io sono qui perché ti amo. Ti amo. Anche se non vuoi sentirlo. Non so da quando di preciso, ma so che ti amo e quello che è successo non cambia quello che provo per te, né tutto quello che potrebbe accadere in futuro. Tu hai detto che è un errore quello che mi hai detto e se è così, Castle, io lo accetto. Però devi essere un uomo e devi guardarmi negli occhi e dirmi che non provi nulla per me, che non vuoi più vedermi, che non conto niente ed io ti giuro, esco da quella porta e dalla tua vita per sempre.Rick deglutì e provò ad abbassare lo sguardo, ma le mani di Kate salde sul suo volto lo alzarono ancora in modo da poterla guardare. Lo inchiodava con i suoi occhi verdi screziati d'oro che tremavano con le lacrime pronte ad uscire. Ma non arretrava, non faceva un passo indietro, non lo lasciava. Voleva una sua risposta, voleva una risposta e la voleva adesso. Poi sarebbe scomparsa o rimasta per sempre.Anche Castle sentiva le lacrime pizzicargli gli occhi. Sarebbe voluto fuggire lontano, da lì, da lei, da tutto. Aveva sperato di sentirle dire quelle parole non sapeva nemmeno più quante volte ed in quel momento, invece, era tutto così sbagliato. Si perdeva nei suoi occhi, come aveva sempre fatto e come sempre riusciva a leggere gli abissi della sua anima. La vedeva impaurita delle sue stesse parole, avrebbe voluto abbracciarla, dirle che andava tutto bene, rassicurarla. Non riusciva a fare niente. Le mani erano inchiodate sulle ruote della sua sedia e alzò gli occhi in alto, oltre lei, e rimase accecato dalla luce fredda del neon che lei aveva acceso quando era entrata, portando con sé quella luce che lui aveva spento da quando si era risvegliato. Sarebbe stata una bellissima metafora per un suo libro, ma quella era la realtà. Chiuse gli occhi per non essere accecato, sperò che lei desistesse dal suo intento, ma non lo fece e lui sapeva che non lo avrebbe fatto. Sapeva che sarebbe rimasta accanto a lui e questo lo terrorizzava tanto quanto non vederla più.- Castle, guardami e dimmi che è stato un errore, che non pensi quello che mi hai detto ed io me ne andrò, te lo giuro.Tornò a guardarla. Era impaurita anche lei. Sapeva che le stava facendo del male, ma in cuor suo sapeva che le avrebbe fatto male qualsiasi cosa avrebbe detto, non subito magari, ma in futuro lei avrebbe sofferto sicuramente per quella situazione e lui era stato condannato a vivere così, non lei a stare con un mezzo uomo come lui. Doveva dirle di andarsene via, di non perdere tempo con lui, di lasciarlo, perché tra loro non c'era niente, non c'era mai stato e non ci sarebbe stato nemmeno in futuro, ma quando tornò a specchiarsi nei suoi occhi che non riuscivano più a trattenere le lacrime non fu capace di dirle niente.- Ti prego, Castle... - lo supplicò con la voce rotta dal pianto, mentre con i pollici accarezzava i suoi zigomi. Rick non si rese nemmeno conto che stava piangendo anche lui. Non riusciva a guardarla e dirle quello che doveva dire, non riusciva a far prevalere la ragione ed ciò che era giusto. Era stanco di combattere contro il destino, il suo fisico, la vita e contro se stesso e non voleva combattere contro di lei, non aveva mai voluto. Sospirò, si sentì sconfitto. Sconfitto dalla sua volontà che era più forte della ragione. Dal volere che andava contro il dovere e lo annientava. Si sentì meschino perché sapeva che quello che con avrebbe detto avrebbe voluto dire condannare anche lei.- Kate io... io ti amo, ma non è giusto... tu non...Non riuscì a finire la frase, perché Kate si sporse verso Rick e lo baciò.- Kate non devi. - Gli disse quando le loro labbra si separarono e lei era rimasta con la fronte appoggiata sulla sua.- Lo so, non devo. Ma voglio, Rick. Tu hai fatto la tua scelta ed io non ho potuto oppormi, lasciami fare la mia. Voglio solo stare con te.- Non è giusto, non così... - Prese le mani di lei e le tolse dal suo volto e indicò ancora la sua situazione mentre lei si risollevava, facendogli sentire ancora di più la differenza e l'ingiustizia di tutto quello. Non poteva nemmeno baciarlo senza doversi chinare, era assurdo. - È vero, non è giusto. Non è giusto tutto quello che ti è successo, Rick. Ma ti amo e tutte le ingiustizie del mondo non cambieranno questa cosa.- Tu non sai cosa mi aspetta, quale sarà la mia vita... come posso dirti di stare con me? - Si era già pentito di essere stato così debole da non essere riuscito ad allontanarla ed ora che lei si era spostata scivolò con la sua sedia allontanandosi e dandogli le spalle.- Sono io che ti chiedo di stare con te. Non so cosa mi aspetta, non lo sai nemmeno tu in realtà. Non sai cosa accadrà, Rick. Ma a me non importa. Dovrai affrontare tante battaglie, è vero. Allora non combattere anche contro di me, contro quello che provi. Facciamolo insieme, contro quello che sarà. Siamo una bella squadra noi, no? Lo hai sempre detto tu.Gli fu alle spalle e lo abbracciò incrociando le mani sul suo petto. Castle reclinò la testa all'indietro fino a trovare il corpo di Beckett. Chiuse gli occhi e respirò lentamente, lasciandosi avvolgere dal calore delle sue braccia e del suo corpo. Era tutto sbagliato ma non ne poteva fare a meno e lei lo strinse di più per non farlo fuggire via. Stavano piangendo entrambi e nessuno dei due si vergognava di farlo.

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