Capitolo 11

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"Sicura di non volere un passaggio? Ho la mia auto qui nel parcheggio" insistette ancora Casey, invitando l'amica ad andare via con lei, mentre agitava le chiavi della sua auto, incastrate ad un bizzarro portachiavi rosa.
Hazel le sorrise "Vai pure, prenderò il mio bus" insistette.
"E se ti proponessi una veloce merenda a base di pancakes caldi e ipercalorici da Rosie's, prima di riaccompagnarti a casa?" la tentò.
Hazel si leccò i baffi, sentendo improvvisamente l'acquolina in bocca, poi ripensò alla doccia calda che aveva previsto di fare non appena tornata a casa, seguita da un dolce riposino dopo le lasagne di sua madre, e non ebbe più nemmeno il bisogno di rifletterci su. Nemmeno dei pancakes caldi insieme a Casey, avrebbero aiutato Hazel a sentirsi meno stanca in quel momento.
Era davvero esausta, e non desiderava nient'altro che riuscire ad arrivare a casa nel minor tempo possibile, adesso che il suo turno era terminato.
Così con uno sguardo dispiaciuto guardò la sua amica, e chiedendole perdono con un sorrisino sghembo, provò a convincerla a non avercela con lei adesso che aveva scelto di tornare a casa, piuttosto che passare la serata con lei.
"Potrei addormentarmi sui tuoi pancakes in questo momento Cas" le rispose. La biondina sbuffò "Sicura di essere la più giovane tra le due?" le chiese, non poi così stanca lei.
Hazel rise, poi mentre Casey la salutava con un bacio sulla guancia, l'abbracciò, affondando la testa fra i suoi soffici boccoli biondi.
"Dovrei farti conoscere mia nonna, avete molte cose in comune!" la stuzzicò ancora Casey, cominciando a dirigersi verso il parcheggio.
Così Hazel, ormai da sola in mezzo a tutti quei turisti, si lasciò cadere sulla panchina su cui ormai era solita prendere freddo mentre aspettava l'arrivo del suo autobus. Attese per una manciata di minuti, mezz'ora, poi addirittura un'ora, e ancora nessuna traccia del bus con quale sarebbe dovuta tornare a casa.
Imprecò sottovoce, non riuscendo a credere che il suo bus avesse scelto di tardare proprio il giorno in cui si sentiva più stanca. Così iniziò a camminare avanti e indietro di fronte la fermata dell'autobus, spazientita e agitata. Provò a chiamare suo fratello, che ovviamente non le rispose, e si maledì per aver rifiutato il passaggio di Casey.
Poi vide un taxista posteggiato proprio a pochi passi da lei, così si precipitò a chiedere informazioni.
"Hanno chiuso l'accesso alla strada che porta all'aeroporto per un grave incidente, così anche io sono rimasto bloccato qui" le spiegò esasperato un uomo robusto, che nascondeva il viso dietro un paio di grossi occhiali da sole, nonostante la luce naturale del sole fosse andata via ormai da un pezzo.
"Cazzo!" disse ad alta voce, sebbene nessuno fosse lì a sentirla lamentarsi. "E adesso cosa faccio?" sfiorò il ridicolo, cominciando a fare domande a se stessa.

Ormai prevedibilissimo, proprio come l'arrivo del mal tempo nel week-end, o il cellulare scarico nei momenti in cui ne avremmo tutti più bisogno, Evan era in ritardo, ancora una volta.
Era quasi diventata un'abitudine, se non un vizio, e ormai non poteva che farsene una ragione: avrebbe sicuramente dovuto aggiungere le sue attività straordinarie come addetto mensa, alle sue esperienze lavorative nel suo curriculum – pensò.
Così si precipitò verso l'uscita dell'aeroporto, correndo, sebbene sapesse meglio di chiunque altro che correre fosse severamente vietato lì dentro.
Si trascinava il suo enorme zaino sulle spalle, aspettando che Peter finalmente rispondesse alla sua chiamata, anche se ricordava perfettamente quanto fosse stato chiaro al riguardo il suo migliore amico l'ultima volta.
"La prossima volta ti lascio solo e vado via" gli aveva detto solo qualche giorno prima, così arrendendosi, rimise il suo cellulare in tasca.
Attraversò le porte come un razzo, sperando di trovare davanti a sé il suo furgone, come se Evan Blake credesse davvero nei miracoli.
Ma l'unica cosa che vide, fu un taxista infuriato che discuteva con qualcuno al telefono, nessuna traccia di Peter, i suoi amici, o il suo furgone. Si portò una mano sulla tempia, maledicendosi.
Quel momento sarebbe prima o poi arrivato di nuovo, a forza di rischiare così tante volte di metter a dura prova la pazienza del sergente Cooper. Così aveva finalmente deciso di dargli una lezione, ormai certo che la mensa non sarebbe poi stata così efficace con Evan.
Ed ecco che si ritrovò a dover tornare in caserma a piedi, ancora una volta.
"Evan?" lo chiamò poi qualcuno, e per un momento sperò addirittura che potesse trattarsi di Peter, o magari John.
Si voltò, e quando vide Hazel infreddolita che gli sorrideva sorpresa, gli si gelò il cuore.
"Donovan!" esordì, cambiando improvvisamente espressione "Che ci fai qui?". "Il mio autobus ha deciso di lasciarmi senza passaggio stasera, sono bloccata qui da più di un'ora" gli spiegò, riuscendo addirittura a trovare della comicità in tutto ciò.
"Sembra non sia la nostra giornata fortunata: la mia squadra è andata via senza di me" le raccontò con un sorriso mozzafiato sul viso, grattandosi il capo e sentendosi anche un po' ridicolo, adesso che lo diceva ad alta voce.
Ma lei non lo trovò affatto ridicolo, così rise, guardandolo divertita, e realizzando solo adesso quanto sfigati fossero entrambi.
"E adesso? Mandano un altro furgone a prenderti?" gli chiese curiosa.
"Mh" cominciò, alzando le sopracciglia "Hai presente quando nei film i capitani puniscono i soldati obbligandoli a fare 30 flessioni ininterrotte, o a sollevare i propri compagni di squadra durante interi percorsi lunghi e faticosi?" Hazel annuì, lo sguardo divertito "Be' nella vita reale è anche peggio!" le rispose sorridendo, e realizzando solo in quel momento quante stronzate si potessero trovare nei film riguardo la vita di un soldato.
"Così quale sarà la tua punizione per esser arrivato in ritardo?" domandò, gli occhi luminosi. "Intendi oltre alla settimana di lavori forzati alla mensa della base che sto già scontando?" Hazel scoppiò a ridere.
"Be' sicuramente adesso mi toccherà tornare alla base a piedi, sorbirmi una bella lavata di capo dal mio superiore non appena mi vedrà, e poi chissà, magari la settimana di lavori forzati verrà prolungata a due settimane!" le spiegò, ridendoci su, sebbene odiasse esser sgridato e punito per i suoi ritardi, considerato quanto bene facesse il suo lavoro.
"Non ti ci vedo proprio a lavorare in una mensa" rifletté Hazel, continuando a sorridergli.
"Hey! Guarda che sono bravo: in pochi riempiono i vassoi con la mia stessa eleganza" si difese ricambiando il sorriso.
Pochi secondi di silenzio, poi Evan riprese la parola.
"E tu? Adesso cosa farai?" le chiese curioso. Hazel roteò gli occhi, non avendo la più pallida idea di quale sarebbero state le sue sorti quella sera.
"In realtà, credo che aspetterò qui che qualcuno venga a salvarmi" sbuffò, lasciandosi cadere sulla solita panchina.
Evan la guardò confuso, "E' proprio in momenti come questi che vorrei la mia moto con me" pensò ad alta voce, sedendosi accanto alla ragazza.
Hazel lo guardò sorpresa "Moto?" chiese entusiasta. Hazel amava le moto, e guidarne una era un sogno che avrebbe tanto voluto realizzare, prima o poi. Magari quando finalmente sarebbe stata capace di guidare almeno un auto.
Evan le sorrise "Sì, se me la lasciassero tenere in caserma, non sarei mai in ritardo, ne sono certo" disse.
"Evan, quanto è distante la fermata della metro dalla base?" gli chiese, improvvisamente colpita da un lampo di genio.
Il ragazzo la guardò con un'espressione confusa "Credo pochi metri, perché?". Hazel gli sorrise "Renderebbe più piacevole la tua passeggiata di ritorno verso la base se venissi con te?" gli propose, voltandosi completamente verso di lui. Rimase a fissarla sorpreso, poi dopo qualche attimo le rispose "Vuoi davvero venire con me?" le chiese colpito. "Se l'alternativa è rimanere qui per chissà ancora quanto tempo prima che Ian o qualcun'altro si decida a venirmi a prendere, allora sì, voglio venire con te" rispose decisa, mettendosi in piedi davanti a lui e invitandolo a fare lo stesso, già carica per quella camminata.
"Be' allora andiamo" esordì il ragazzo, alzandosi e facendo segno con la mano ad Hazel di andare per prima, chinandosi leggermente.
Così i due cominciarono a camminare, l'uno accanto all'altra, in quelle loro uniformi che sarebbero saltate all'occhio di chiunque fosse passato accanto ai due. D'altronde non era proprio da tutti i giorni vedere un'hostess passeggiare per la strada scortata da un bellissimo soldato.
Evan si sentiva in imbarazzo, come se mai avesse immaginato di trovarsi da solo con Hazel, proprio in quelle assurde circostanze. Le camminava affianco, guardandola muoversi in quelle converse che davano al suo completo un aspetto particolare, proprio tipico di Hazel. E non riusciva a smettere di sorridere, come se la sua sola presenza lo mettesse di buon umore.
"Allora? Cosa fai nella vita oltre ad essere un coraggiosissimo soldato?" ruppe il silenzio la ragazza, sempre quella più estroversa fra i due.
Evan la guardò sorpreso "Chi ti dice che io sia coraggioso?" le chiese ammiccando un meraviglioso sorriso.
"La tua divisa!" rispose la ragazza come se non ci fosse nulla di più ovvio.
"Non sono un supereroe" precisò il ragazzo, umile come pochi, continuando a camminare.
"Ma salvi decine e decine di vite ogni giorno, è questo il tuo lavoro, no?" chiese approvazione la ragazza.
Evan ripensò alla conversazione che aveva avuto solo un giorno prima con Peter. Era davvero da ammirare solo perché il suo compito era assicurare la vita a delle persone che avrebbero rischiato di perderla anche solo uscendo di casa?
Non riusciva a vedere niente di nobile in quello che faceva. Non quando aveva sparato a centinaia di uomini, non quando aveva visto intere città crollare a pezzi per mano dell'esercito americano.
"Non è quello che faccio adesso" rispose freddo il ragazzo "Per ora mi limito a scortare pezzi grossi, controllare bagagli, assistere agli interrogatori" continuò.
Hazel lo guardò confusa "Sembra tu odi farlo" gli disse, inarcando un sopracciglio.
"Forse è proprio così" le diede ragione, mentre continuava a tenere lo sguardo basso verso i suoi anfibi.
"Perché?" gli chiese sempre più curiosa, cercando il suo sguardo.
"Non è questo che un soldato dovrebbe fare, non almeno quando ha già visto il peggio che questo lavoro possa offrirgli" le spiegò, fissando i suoi occhi blu in quelli della ragazza.
"Perché sei qui allora? Tu hai già visto il peggio?".
"Ci sono cose che non si possono spiegare a parole, e ciò che abbiamo visto io e i ragazzi in posti dove la guerra è all'ordine del giorno, rientra proprio in quella categoria" cominciò ad aprirsi con sua grande sorpresa Evan.
Non era quel tipo di persona capace di parlare con chiunque di ciò che sentiva, ciò che lo tormentava. Avrebbe preferito di gran lunga rimanere in una stanza a piangere, con la sola compagnia dei suoi demoni, piuttosto che aprirsi con qualcuno.
Ma d'altronde Evan era famoso per essere un ragazzo riservato. Dolce e simpatico, ma pur sempre un testardo che nemmeno sotto tortura avrebbe esternato le sue preoccupazioni.
Hazel lo guardò colpita, come se non si sarebbe mai aspettata una risposta così fredda. "È proprio questo che ti rende coraggioso, lo sai vero?" disse la ragazza.
Evan la fissò attentamente "Quello che faccio non è da ammirare" precisò, diventando sempre più serio.
"Be' soldato, mi dispiace dirtelo ma non riesco a non provare ammirazione per te e per quello che fai" gli confessò, sorridendogli.
Evan si fermò improvvisamente "Ho ucciso degli uomini Hazel, come fai ad ammirare un assassino?" le chiese, non riuscendo in nessun modo ad essere d'accordo con la sua amica.
Lei lo guardò colpita dalle sue parole "Tu non sei un assassino" gli disse, decisa.
"Ho ucciso degli uomini" ripeté Evan, la disperazione nel suo volto.
Più volte lo ricordava, più cresceva l'odio verso se stesso.
Amava il suo lavoro, ma non poteva fare a meno che trovare qualcosa di sbagliato in esso, da quando era ritornato dalla sua missione a Baghdad.
Hazel si avvicinò a lui, poi disse "Lo hai fatto perché lo volevi davvero? O perché sei stato costretto a farlo?".
Evan la guardava, sorpreso dal modo in cui gli stava parlando, con una dolcezza tale da farlo sentire a suo agio, sebbene fosse un evento più che raro per lui.
Ma non le rispose, non ne fu capace, troppo occupato ad analizzare ogni sua parola, la testa annebbiata dai ricordi, i rimpianti e la rabbia.
"Evan io ti ammiro perché nonostante tu spesso sia costretto ad uccidere delle persone, metti a rischio la tua vita ogni giorno per salvarne altre. Nonostante tu non le conosca, nonostante niente e nessuno ti dia la certezza che tornerai vivo a casa alla fine di ogni missione" continuò la ragazza.
Evan la guardava paralizzato sul ciglio della strada, sotto un cielo nuvoloso, le macchine che veloci sfrecciavano senza nemmeno notarli, gli occhi blu colmi di lacrime. Stava lì, con le sue grosse spalle, l'altezza imponente, il capo coperto dal suo berretto nero. Una figura maestosa, forte, ma un animo così umile, sensibile. Hazel sentì il suo cuore sciogliersi, nel vederlo lì davanti a lei immobile, come un ragazzino indifeso, che si sente in colpa, che si è pentito di ciò he ha fatto, nonostante lo abbia fatto per un fine giusto, ovvero salvare delle vite.
"Ma io sono vivo, quelle persone no" disse solo Evan, la voce singhiozzante.
Hazel non riusciva a credere ai suoi occhi.
Il giorno in cui si erano presentati, lo aveva giudicato per il suo modo di fare freddo, distaccato e anche un po' scortese, e adesso non poteva fare a meno che provare un'immensa tristezza nel vedere un Evan totalmente diverso. Un ragazzo sensibile, dolce, con dei precisi valori. Un ragazzo che odiava se stesso per quello che era stato costretto a fare, un ragazzo che così giovane, aveva già avuto la sfortuna di conoscere ciò che di peggiore potesse donargli il mondo.
"Tu sei vivo perché sei un ragazzo forte, e molte altre persone oggi sono vive per merito tuo, Evan" provò ancora una volta a convincerlo, sempre più vicina a lui.
Evan continuava a guardarla con uno sguardo sconfitto, triste e cupo.
Delle lacrime cominciarono a scivolare lungo i suoi zigomi marcati, la sua pelle chiara. Hazel sentì una fitta forte al cuore, come se semplicemente stando lì davanti a lui, potesse sentire l'immenso dolore, il senso di colpa struggente, con i quali Evan sembrava convivere ormai da un bel po' di tempo.
"Evan?" lo richiamò, non avendo ancora ricevuto una risposta, ormai di fronte a lui.
Il ragazzo, che nel momento in cui le lacrime avevano cominciato a rigargli il volto, aveva iniziato ad asciugarsi le guance umide, adesso cercava di nascondersi il volto con le sue grandi mani, non volendo far notare ad Hazel quanto fosse vulnerabile in quel momento.
Ma lei, sollevando una mano, scostò delicatamente quelle del ragazzo, con l'intento di guardarlo di nuovo in faccia.
Trattenne le sue mani nella sua, tenendogliele strette, poi con quella libera gli asciugò quelle poche lacrime che ancora scendevano lungo le sue guance. Gli accarezzò il viso, invasa dall'immensa tenerezza che aveva adesso dipinta sul volto Evan, lì vulnerabile davanti a lei. Gli sorrise, guardandolo colpita.
"Non devi avercela con te stesso" gli disse, accarezzandogli le mani grandi.
"Se fossi stata lì, se mi avessi visto sparare a quegli uomini, adesso non la penseresti così" le disse, irremovibile.
"Mi basta guardare il ragazzo che adesso davanti ai miei occhi non fa che ripetere quanto in colpa si senta per quello che ha fatto, per sapere che non sei chi tu dici di essere" gli disse, guardandolo con uno sguardo dolce e comprensivo.
"Non hai paura di me?" le chiese serio, guardandola negli occhi.
"Non ho paura di te" le disse sorridendogli.
Evan lanciò una veloce occhiata alla fondina allacciata alla sua vita, dove teneva la sua pistola.
"Non avrei paura di te nemmeno se me la puntassi contro" disse ancora la ragazza, posando una mano sull'arma.
Evan rialzò lo sguardo sorpreso, poi disse semplicemente "Grazie" fissando i suoi occhi blu dritto in quelli scurissimi della ragazza. Lei gli sorrise, poi lui continuò "Grazie per credere che io non sia una brutta persona".

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