Capitolo 12

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Era l'ultimo del mese, e per Caesy quel giorno rappresentava un solo evento, unico ed inevitabile. Era il giorno in cui, insieme a sua madre e la sua sorellina, provviste di fiori e candele nuove, si recavano al cimitero di Santa Ana per far visita al loro papà.
Il 30 di ogni mese sembrava esistere solo per lui, da quando le aveva lasciate, il 30 novembre di tre anni fa.
Caesy aveva promesso a sua madre che non avrebbe saltato una visita, che ci sarebbe sempre stata, lì accanto a lei, davanti alla lapide del signor Johnson. Era un qualcosa che ripetevano da anni, ma ogni volta sembrava più difficile, ogni volta più straziante. Non ci avrebbero mai fatto l'abitudine.
Ma d'altronde, come ci si può abituare all'assenza di qualcuno che fin dal momento in cui hai inalato il tuo primo respiro, ti è stato sempre accanto?
Caesy, per quanto cercasse di nascondere invano il dolore, la nostalgia, stava ancora cercando di digerire il tutto. Era come se per lei suo padre non fosse mai morto, come se non fosse mai stata capace di realizzare che fosse ormai andato via. Diceva che aveva ormai superato il lutto da tempo, che l'unica cosa che la faceva ancora soffrire terribilmente, fosse semplicemente vedere sua madre e sua sorella distruggersi fra lacrime e singhiozzi davanti ad ogni minima cosa che ricordasse loro il signor Johnson.
Si ostinava a trattenere le lacrime, a ignorare gli oggetti di suo padre che tenevano ancora in casa, addirittura a cercare di non parlare nemmeno di lui. Caesy aveva un modo di gestire le cose tutto suo.
Sosteneva di riuscire ad affrontare e superare i suoi problemi ogni volta, ma quello che in realtà faceva era ben altro.
Tratteneva tutto, ogni emozione ben sigillata dentro di lei. Si chiudeva in se stessa, e non piangeva, non si sfogava, stava zitta e tollerava ogni cosa. Ma infondo lo sapeva meglio di chiunque altro: tutto dentro di lei era destinato ad implodere. Collezionava delusioni, dolore e rimpianti, ma il tutto, un giorno sarebbe esploso, e chissà dove l'avrebbe trascinata, chissà se non l'avrebbe fatta impazzire.
Così eccola attraversare l'enorme inferriata del cancello del cimitero, proseguiva verso il giardino dove era sepolto Robert Johnson in religioso silenzio, non emettendo alcun suono se non quello dei suoi passi. E Phoebe, sua sorella, così piccola ma già così grande, stava accanto ad Annalise, sua madre, tenendole stretta la mano, più per farle forza che per cercare di non perdersi, in quel luogo spaventosamente immenso.
Nell'altra mano teneva il coniglietto in peluche che suo padre le aveva regalato uno dei suoi ultimi compleanni passati con lui. Caesy invece, era impassibile.
Si nascondeva metà volto dietro un enorme sciarpa avvolta fitta al collo, le mani dentro le tasche del suo cappotto, e tremava. Avrebbe detto che fosse a causa del freddo, ma almeno a se stessa, non riusciva a nasconderlo.
Le scosse che la facevano rabbrividire erano dovute a quel posto, e a quella strana sensazione che provava ogni volta che si trovava lì, come se potesse sentire la presenza di suo padre più in quel cimitero che in casa loro.
Si guardava intorno, affascinata e terrorizzata al tempo stesso.
Infondo i cimiteri erano molto simili ai parchi, solo con delle lapidi in sostituzione ai giochi per bambini. La vastità di tutto quel verde la colpiva ogni volta, il prato sempre curato, le aiuole piene di fiori, e gli alberi maestosi. Lo avrebbe considerato quasi un bel posto, se suo padre non fosse stato sepolto proprio lì.
Notò la sua lapide fra decine di blocchi in pietra tutti uguali. Lo avrebbe riconosciuto anche al buio, nonostante ormai non rimanesse che un mucchio di terra di lui. Ma nonostante ciò, Annalise e la piccola Phoebe, continuavano a comportarsi come se il signor Johnson fosse davvero lì, pronto ad accogliere tutte loro in uno dei suoi calorosi abbracci.
Purtroppo però, ciò che avevano davanti non era che un nome inciso nella pietra, circondato da fiori colorati, e illuminato dalla luce flebile di una candela profumata. Caesy rimase ferma a guardare sua madre sussurare qualcosa al marito, in ginocchio davanti la sua tomba. Phoebe invece, era impegnata a sistemare la sua nuova lettera sotto il pesante vaso colmo di fiori.
Era un'abitudine che la piccola aveva onorato sempre, da quando suo padre era andato via. Scriveva ogni mese una lettera diversa, così parlava col suo papà, gli ricordava quanto bene gli volesse, e lo aggiornava mese dopo mese sulle ultime novità nelle loro vite. Non aveva mancato un solo mese, troppo attenta a non deludere qualcuno che non c'era più.
Caesy invece, che era solita scrivere lettere strappalacrime per il padre ad ogni suo compleanno, adesso non riusciva nemmeno a sussurare un debole Ti voglio bene alla sua tomba. Le mancava terribilmente, ma non era più riuscita a fare niente per lui in seguito alla sua morte. Il meglio che riusciva a fare era semplicemente portargli dei fiori, ogni fine mese, insieme a sua madre e sua sorella minore. Si odiava per questo, ma niente sembrava aiutarla a lasciarsi andare.
Peter ci aveva provato un numero infinito di volte. Sapeva quanto avesse bisogno Casey di sfogarsi, di parlarne, per questo aveva tentato di aiutarla sempre, in qualsiasi modo. Ma Caesy sembrava non avere proprio speranze. Venire a conoscenza del segreto che condividevano lui e suo padre poi, non l'aveva di certo aiutata.
Nella sua testa non faceva che chiedersi come fosse stato possibile che suo padre avesse comprato in modo così spregevole Peter.
Conosceva bene quel Robert Johnson, quel magistrato che aveva mandato in galera innocenti, che aveva coperto assassini, insabbiando prove e creandone di false. Sapeva bene quanto fosse scorretto: era un rappresentante della legge, il suo compito era quello di giudicare la gente in un tribunale, ma nonostante ciò, il signor Johnson sembrava aver preferito da sempre la corruzione, l'omertà e il sabotaggio.
Non era un uomo buono, ne tanto meno un bravo magistrato.
Aveva fatto cose orribili, manipolando e corrompendo, e Caesy lo avrebbe odiato per sempre per quello che le aveva fatto.
Commettere reati, recitare il ruolo dell'uomo che fa della Legge la sua Bibbia, e abusare del suo potere, erano caratteristiche del signor Johnson che Caesy conosceva bene. Ma ciò che non si sarebbe mai aspettata, ciò che non riusciva ancora ad accettare, era l'inflazione commissionata da suo padre, che aveva visto come protagonista proprio il suo Peter.
Da sempre aveva provato vergogna per il padre manipolatore che aveva, ma mai e poi mai si sarebbe immaginata di poter  provare addirittura disprezzo per Peter, l'uomo che più aveva amato nella sua vita.
E non riusciva a giustificarlo in nessun modo, nemmeno quando ripensava al perché aveva accettato di farlo.
Ottenere un posto nell'esercito, garantire un buon stipendio alla sua famiglia, ovvero sua madre vedova e la sua sorellina, non sembravano essere delle scuse valide per ciò che aveva fatto, secondo Caesy.
Non riusciva a guardarlo in faccia, figuriamoci a perdonarlo.
Socchiuse gli occhi, cercando di mettere a fuoco le immagini davanti a lei, ma le lacrime che improvvisamente le inondarono gli occhi sembravano proprio non voler cessare di scorrere. Si passò velocemente una mano sul volto, asciugandosi le guance umide col dorso della mano. Finalmente riuscì a vedere di nuovo nitido davanti a se, ciò che le rimaneva ormai di suo padre. Sospirò arrendendosi, gettò gli ultimi fiori rimasti ai piedi della lapide davanti a sè, poi sfrecciò via, così si allontanò da sola lasciando lì sua madre e la piccola Phoebe.
Non sarebbe mai riuscita a perdonare suo padre per tutto il male che aveva fatto, a lei, a Peter, e a tutta quella povera gente che aveva avuto la sfortuna di trovarsi in un tribunale con lui. Ma nonostante lo disprezzasse, si trattava comunque di suo padre, e per questo odiava anche se stessa.
Considerava suo padre un uomo malvagio, e se stessa, una figlia indegna capace di avercela con il padre, anche quando lo aveva ormai perso per sempre.

Era sera, e quel giorno toccava a lei portare a spasso Aaron. I fratelli Donovan erano soliti fare a turni per ogni cosa: lavare i piatti, fare la doccia, portare a spasso il loro cane, e un mucchio di altre noiosissime faccende domestiche. Così disgraziatamente la serata più fredda di tutta la settimana era capitata proprio ad Hazel, che adesso si faceva trascinare dal suo cagnolone per tutto l'immenso Morrison Park. Continuava a strillare "Aaron vai piano!" o "Maledizione a Ian che ti porta sempre con lui a correre, con me devi andare piano!", rimanendo quasi davvero delusa quando il suo cane non le rispondeva nemmeno. Così finalmente si lasciò cadere su una panchina nel parco giochi, obbligando Aaron a seguirla e a stare tranquillo per almeno un paio di minuti, legandolo all'inferriata della panchina gelida. Il cucciolo le si sedette affianco, poggiandosi sulle gambe della ragazza, e supplicandola quasi di fargli le coccole con quegli occhi dolci.
Hazel gli sorrise, poi cominciò a coccolarlo. Lo adorava, e se per alcuni un cane non era che un semplice animale domestico, solo un animale da compagnia, per lei era molto di più. Gli bastava guardarlo sguazzare nel fango, o correre eccitato per il loro giardino, per rallegrarla. Continuava a carezzarlo, mentre il cucciolo si rilassava sdraiato sulle sue gambe, poi Aaron sentì qualcosa, si mise subito diritto, le orecchie erette, e la coda immobile. Iniziò ad abbaiare, continuando a saltellare e a muoversi davanti la loro panchina. Poi all'improvviso il nodo fatto velocemente poco prima al suo guinzaglio si sciolse, così Aaron fu libero di scappare via. Corse verso il campo da calcio oltre il parco giochi, veloce come una furia, senza nemmeno dare il tempo ad Hazel di realizzare cosa stesse succedendo. La ragazza guardò la scena confusa, poi spaventata iniziò a seguirlo, correndo più veloce che poteva, ma mai abbastanza da riuscire a raggiungerlo. Lo vide sparire fra gli alberi, non riuscendo più a scorgere in quale direzione fosse diretto. Esasperata iniziò ad imprecare, continuando a correre. "Aaron!" gridò, probabilmente sola in quel parco immenso. Si guardò attorno terrorizzata, poi si maledì per esser stata così sciocca ad aver pensato che semplicemente legandolo ad una panchina, Aaron sarebbe stato buono e calmo.
"Aaron, vieni qui!" urlò di nuovo, riuscendo a sentirlo a mala pena abbaiare. Attraversò la zona più buia del parco, dove avrebbe giurato di trovare coppiette appartate, drogati o barboni, e quando non vide nessuno di loro, ne rimase quasi sorpresa. Giunse al campo di calcio, dove finalmente riuscì a scorgere un po' di luce. Provò a riconoscere la figura del suo cane fra gli spalti in legno dove gli spettatori erano soliti sedersi durante le partite. E rimase stupita quando vide Aaron lasciarsi tranquillamente coccolare da qualcuno, a pochi passi da lei.
"Aaron" sussurrò, incamminandosi verso di loro, poi la figura in ginocchio intenta a carezzare il suo cane, si accorse di lei, e alzò lo sguardo. Ma lei non riuscì a vederlo in faccia, a causa della poca luce. Si avvicinò cauta, poi disse "Grazie, riesce a scapparmi sempre". Il ragazzo si alzò in piedi, tenendo Aaron dal guinzaglio, poi fissò i suoi occhi in quelli di Hazel, che adesso riuscì finalmente a vederlo. La ragazza si immobilizzò d'un tratto, lasciando la sua frase sospesa in aria.
Il ragazzo davanti a lei rimase lì a fissarla sorpreso, ma anche un po' in imbarazzo. Indossava una tuta grigia, la felpa nera, il cappuccio sul capo gli nascondeva i capelli, e proiettava un'ombra sul suo viso, lasciando scorgere a mala pena il verde dei suoi occhi. Hazel rimase senza parole.
Poi Aaron prese l'iniziativa, e avvicinandosi alla sua padrona, costrinse il ragazzo che ancora lo teneva stretto al guinzaglio, a seguirlo.
I due si trovarono adesso l'uno davanti all'altra, zitti e scioccati.
"Hazel" disse solo il ragazzo con voce roca. La ragazza non si scompose nemmeno al suono della sua voce, semplicemente gli occhi si inumidirono, e la bocca si contrasse in una strana smorfia. Si mise le mani in tasca, dopo aver strappato via il guinzaglio dalle mani del ragazzo davanti a lei. Nel frattempo lui continuava a fissarla, a disagio, sebbene sembrasse volerle dire qualcosa, pur non sapendo come, pur non avendo le parole.
"Come stai?" le chiese poi sinceramente interessato, abbassandosi il cappuccio dal capo, come se adesso non gli importasse più nascondersi. La ragazza lo guardò con lieve disprezzo, poi arrabbiata, ma allo stesso tempo orgogliosa gli rispose "Sto bene, Noah".

 La ragazza lo guardò con lieve disprezzo, poi arrabbiata, ma allo stesso tempo orgogliosa gli rispose "Sto bene, Noah"

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