CAPITOLO 28

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Il posto in cui mi trovo fa schifo. Credo sia una specie di cantina. Probabilmente l'ultima volta che qualcuno ci ha messo piede è stato cento anni fa, almeno fino ad oggi, considerando lo schifo che vedo intorno a me.
La testa mi fa un male cane, prima di riuscire ad aprire gli occhi e mettere a fuoco mi ci è voluto un bel po', credo di aver battuto la testa.
Intorno a me c'è il nulla, se non consideriamo la piccola lampadina che pende dal soffitto e che illumina ben poco. La cosa più rivoltante è la puzza di muffa, se qualcuno non mi tira fuori da qui il prima possibile vomiterò, ne sono certa.
Sono riversa su un fianco perché ho le mani ed i piedi legati, ho le lacrime agli occhi per il fastidio di stare in questa posizione.
Da dietro la porta chiusa sento delle voci, non le conosco e non capisco nemmeno cosa stanno dicendo, ma la situazione non è bella, questo è sicuro.
Mi sembra passare un'eternità prima che qualcuno si degni di entrare. L'uomo che ho di fronte non ha l'aria simpatica. La poca luce presente mi fa intravedere una cicatrice sulla guancia destra, gli occhi sembrano due pozzi neri, i capelli unti sono tirati all'indietro e legati in un codino orrendo.
Senza dirmi nulla posizione una sedia vicino a me, mi tira su di peso e mi fa sedere.
<< Ora noi facciamo bel discorsetto.>>
Primo dettaglio: non è italiano. Forse russo? Sono sempre stata pessima con gli accenti.
<<Dove possiamo prendere il bambino che polizia preso quel giorno?>>
Lo guardo allibita. Che razza di domanda è?
<<Non importa dove si trova. Non riuscirete a prenderlo.>>
Lo vedo fare una specie di sorriso, direi più un ghigno malefico.
<< Quella stupida puttana ci ha creato solo casini. Non sai quanti problemi abbiamo.>>
Rimango in silenzio.
<<Tu ci darai quel maledetto bambino, o non esci viva da qua.>>
Resto ancora in silenzio. Fino a quando un sonoro schiaffo sulla guancia non mi fa uscire un lamento di dolore.
<<Saranno minuti lunghi se rimani zitta. Sappiamo che vivi con lui.>>
Sento la guancia bruciare, una sensazione fin troppo familiare. Probabilmente non è un caso se qualche volta mi sono sentita osservata, l'unico modo per avere informazioni su di me e su di loro è stato seguirci.
<<È solo un bambino, cosa volete da lui?>>
Mi guarda con aria scocciata prima di sputare a terra, vicinissimo ai miei piedi.
<<Quella puttana lo voleva vendere. Ci hanno pagato e noi non avevamo più bambino perché arrivata polizia. I bambini costano, se noi non diamo loro allora dobbiamo rimborsare soldi con interessi.>>
Le sue parole mi fanno rabbrividire. La tranquillità con cui parla di una cosa del genere è qualcosa di abominevole.
<<Ora dimmi dove cazzo prendiamo bambino, capito?>>
Negli anni, dopo le mie esperienze, ho imparato a riconoscere quel lampo negli occhi che si accende quando qualcuno sta perdendo la pazienza. L'ho visto negli occhi del ragazzo che mi ha stuprata, l'ho visto negli occhi di Daniele prima di menarmi e adesso lo vedo negli occhi di questo sconosciuto, e tutto ciò che riesco a pensare è "vi prego qualcuno salvi il mio bambino."

****

Ho capito che qualcosa non andava nel momento esatto in cui ho provato a chiamarla e lei non ha risposto. Erano le nove e lei avrebbe risposto per informarmi del suo ritardo. Le avevo fatto portare la macchina al solito parcheggio, le avevo detto di mandarmi un messaggio quando stava tornando, ma non è mai arrivato nulla.
Il terrore mi invase nel momento in cui ho chiamato Elettra e mi ha riferito che è passata un'ora da quando si sono salutate.
Nella mia mente ho iniziato ad immaginare gli scenari peggiori: lei stesa sull'asfalto ricoperta di sangue, lei stesa a terra da qualsiasi altra parte che perde sangue, lei che si è schiantata con la macchina contro un albero, o un lampione o un'altra auto, lei che si sente male e nessuno la aiuta. Ogni immagina accresceva il mio terrore.
E adesso, seduto su questa cazzo di sedia, con la polizia che mi dice di mantenere la calma perché probabilmente non è successo niente, ora vorrei davvero spaccare la faccia a qualcuno.
Visto che la polizia non sembra prendere sul serio la faccenda, nonostante tutti sappiano quello che da poco è successo a mio figlio, ho deciso di chiamare Fabio, il mio investigatore privato, lui troverà qualcosa, non mi interessa come, basta che ritrovino Elizabeth.
Passano tre ore in cui viene ritrovata la sua auto al parcheggio, una macchia di sangue a terra dal lato del guidatore, probabilmente il suo. Scoprono che il cellulare non è rintracciabile. Fabio riesce finalmente a mettere le mani sui video di sorveglianza, e ancora una volta, ringraziando Dio, non sono stati attenti.
Quando la polizia ha finalmente compreso quello che sta succedendo io so che è troppo tardi. Lo sento dentro di me, quella sensazione di disagio, quel groppo in gola che non vuole andarsene, io so che quando troveremo Elizabeth sarà troppo tardi.

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