Vivere

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Quando torno a casa, mi sbatto la porta della camera alle spalle e mi butto sul materasso privo di lenzuola, ancora stese fuori dal balcone affinché asciughino.
Odio tutti, odio tutto. Odio il materasso bagnato su cui sono a pancia in giù, la faccia sul cuscino ormai quasi asciutto che uso per soffocare un urlo gutturale e liberatorio.
Cosa mi passa per la testa? Cercare di sedurre una ragazza che ragiona come può ragionare Junior! Lei non è lei, perché non lo capisco? Non vedrò mai chi è veramente Billity Kant e più le sto vicino, più ci starò male quando morirà.
Ora, però, una parte di me sembra morire dalla voglia di vederla ancora. Mi ricordo che nel mazzo di rose avevo lasciato un piccolo bigliettino bianco, all'interno c'era scritto Per Billy e dietro c'era il mio numero di telefono nella speranza che mi scrivesse. Ma non mi scriverà mai, perché non lo riesci a mandar giù? È come un groppo in gola. Voglio piangere, ma sono troppo uomo per farlo.
Ridicolo vero? Prima scappare come un codardo di fronte ad una ragazza con il cervello divorato, poi dirsi di essere un uomo. Non sono un uomo, sono un mostro.
Poi un trillo, è inequivocabilmente il suono del mio cellulare. All'inizio mi illudo che sia lei, poi leggo il nome nelle notifiche, tenendo stretto il cellulare tra le dita. Le nocche sono praticamente sbiancate.
Michael Clifford, il mio migliore amico. Forse vederlo mi farà bene, sempre che io riesca a stare bene. Ma ora ricordo, con lui non ho mai perso il sorriso. Allora apro la notifica sul touch-screen e un messaggio mi si apre davanti agli occhi, non posso fare a meno di sorridere.
Muovi il culo, ora mangiamo il gelato.
L'abbiamo fatto milioni di volte. Ci incontriamo in men che non si dica davanti alla palestra. È alto più o meno come me, ha i capelli viola. Lo so, è un colore strano, ma lui ama tingerseli e l'ultimo colore gliel'ho consigliato io. A volte penso che sia gay, per i suoi modi di fare.
Le lunghe gambe sono coperte da pantaloni neri, mentre indossa l'immancabile camicia a scacchi rossa che gli ho regalato tempo fa. La adora.
In mano tiene un barattolo di gelato al cioccolato, denso e freddo, il nostro preferito. Nell'altro palmo, due cucchiai.
Ora viene il bello. Ci appostiamo di fronte alla vetrata dove quattro donne e uomini sovrappeso corrono stremati sui tapis roulant. Mikey apre il barattolo e affondiamo proprio di fronte a loro i cucchiai nella crema ghiacciata. Quando ce lo portiamo alla bocca, ci assicuriamo di avere un'espressione assolutamente deliziata e non può mancare la lingua sulle labbra che tolga il fiato alle donzelle dietro i tapis roulant.
Intanto, le palle di lardo che corrono di fronte a noi, hanno l'acquolina in bocca. Eppure mi piace, essere spregevole. Perché il mondo è spregevole e se non lo sei anche tu non hai speranze di sopravvivenza. Mi viene di nuovo in mente Billy e, mentre gustiamo il nostro gelato al cioccolato di fronte ai grassoni che sbavano, decido di parlarne a Michael.
«Ho conosciuto una ragazza,» dico, anche se di solito durante il rituale del gelato non parliamo, «in ospedale.»
«Fico,» dice lui.
«Ha un cancro al cervello.»
Affonda il cucchiaio nel gelato, poi lo lascia li, impiantato nella crema marrone. «Qui ci vuole la panchina» dice e mi prende per mano, tirandoli verso i giardinetti di questa città che tanto odio e amo.
Questo mi piace di Michael. Quando sa che sto male, mi porta qui, su questa panchina, di fronte al parco giochi dei bambini. Loro si arrampicano, cadono e si rialzano, corrono finchè i genitori non li portano via e loro si disperano perché devono lasciare lo scivolo da solo per tutta la notte. Veniamo sempre qui, quando uno di noi sta male, ma lui è il più bravo dei due a riaggiustare i l'anima.
Insomma, ti fa quelle poche domande che bastano per farti uscire tutto lo schifo che tieni dentro. Ti dice cosa pensa, schietto e coinciso, ma con un tocco di ironia e sincerità che ti fa stare bene. Lui sa come fare. Non ho mai capito dove ha imparato, ma sembra che controlli il dolore degli altri a suo piacimento.
«Come si chiama?» mi domanda. Una frase semplice. Posso rispondere? Sì, e lo faccio. Dico che si chiama Billy Kant, non dico il nome intero. Ha un nome così bello che, sbandierandolo ai quattro venti, mi sento di tradirlo. Di tradire il nome. Sono pazzo.
«Vive sempre la stessa giornata...» e mi butto nella spiegazione. Lui ascolta, assorto, emanando solo un sospiro ogni tanto. Può? Può davvero tirarmi su di morale ogni volta?
Perché ora mi sento a casa e so che è stato giusto reagire così, non sono un codardo. Mi sono solo allontanato da quella persona un po' strana e lei domani nemmeno se ne ricorderà.
«Dovresti flirtare. Insomma, giocaci! Dimenticherà tutto di giorno in giorno, è talmente lunatica che per te sarà un triplo divertimento.»
All'inizio, mi sembra un'idea schifosa. Come posso approfittare del suo tumore? Del suo schifoso cervello solo per divertirmi?
Ma ora mi rendo conto che ha ragione. Fisso quei bambini, che corrono, giocano, vivono. Io non l'ho mai fatto, da quando ho messo piede in quella famiglia. Da quando mi hanno diagnosticato la leucemia.
Non ho mai vissuto davvero. Lei sì, lei ha vissuto quattordici anni della sua vita, gli anni migliori in assoluto. Perché lei si e io no?
Un lampo di luce galleggia nella mia mente, riesco a udire solo più poche parole di Michael.
«Dov'è il Luke stronzo che ho conosciuto?»
Caro Michael, lo Luke stronzo è tornato.

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