Capitolo 25

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Diego

Ormai l'estate stava giungendo al termine. Erano gli ultimi giorni di agosto, Bea stava già impacchettando tutte le sue cose, pronta per trasferirsi a Roma. Io, dal mio canto, ancora non mettevo niente in scatola. In fondo, Rimini mi sarebbe mancata un sacco. Era la città che mi aveva visto crescere, quella che mi aveva cullato nelle sue strade, con un pallone in mano, a scansare i turisti che raggiungevano a piedi il lungomare. Ero molto legato a quella città, e lasciandola, avrei detto addio anche ad un pezzo di cuore.

Io e Bea avevamo deciso di frequentare la stessa università a Roma. Avevamo già fatto l'iscrizione, e per i primi di settembre puntavamo già di trasferirci. La madre, ovviamente, non vedeva con buon occhio quella nostra scelta: dopo un anno e due mesi di storia, credeva fosse affrettato andare a convivere, lontano da Rimini oltretutto. Inutile dire che, però, Beatrice aveva fatto le sue scelte e Linda non sarebbe stata capace di farle cambiare idea. E poi, io ero sicuro di voler passare il resto della mia vita con lei, per cui, la convivenza mi sembravano le fondamenta della casa solida che stavamo costruendo giorno per giorno, io e Bea.

"Marco muoviti." Sbraitai a telefono. Ci metteva sempre tre ore per prepararsi e scendere. Perfino Ludovica, nei sedili posteriori, sembrava essersi scocciata.

"Hai un fidanzato che è una femminuccia." Beatrice, al mio fianco, canticchiava. Ludovica invece alzava gli occhi al cielo.

"E questo è niente..." mormorò. Io risi, perché conoscevo il mio migliore amico, ad era un po' come Bea. Impiegava ore ed ore per prepararsi, anche solo per mettere un banalissimo jeans ed una felpa.

Quando finalmente entrò in auto, tutti e tre ci voltammo verso di lui in sincrono, e lo guardammo male. Lui scrollò le spalle con innocenza. "Scusate, la prossima volta faccio prima." E la cosa bella era che lo diceva ogni dannata volta.

Eravamo diretti da Carlo's, un ristorante vicino al lungomare. Quella era una delle ultime sere che passavamo insieme tutti e quattro: io e Bea saremmo andati a Roma, Marco e Ludovica a Napoli. Nessuno sarebbe rimasto qui, a Rimini, e speravo solo che non avremmo perso ognuno le tracce dell'altro.

Passammo l'intera serata a parlare e scherzare tra di noi, come facevamo sempre, come facevamo solo noi. Non avrei mai potuto immaginare che quella sarebbe stata l'ultima volta che ci saremmo visti tutti e quattro, insieme ed uniti.

Nel viaggio di ritorno a casa, io guidavo come al solito, Bea era appoggiata al finestrino e quasi si era addormentata. Dietro di noi, Marco e Ludovica si stavano scambiando baci appassionati che, visto da fuori, facevamo venire il voltastomaco.

Non avevo mai capito perché, dopo una certa ora, i semafori iniziassero a lampeggiare. Procedevo sempre con molta cautela, non volevo fare incidenti.

Purtroppo, le altre persone non la pensavano come me. Avevo impiegato l'incrocio, ero giusto al centro di esso.

Non seppi esattamente a quanto andasse quell'auto, sapevo solo che era così veloce che era apparsa in meno di un secondo.

Non feci in tempo a raggiungere l'altra sponda dell'incrocio, che quella maledetta auto finì nella fiancata del passeggero. L'impatto fu così forte che l'auto fece vari giri su se stessa, i vetri si distrussero, e Beatrice era completamente addosso a me. Ludovica, invece, era addirittura finita fuori dall'auto. Marco aveva perso i sensi, era sdraiato sui sedili posteriori. Non sapevo come fosse possibile, ma non avevo perso i sensi, forse perché ero l'unico ad aver indossato la cintura. L'impatto però mi aveva provocato un qualche tipo di stiratura, non riuscivo a muovere la schiena dal dolore.

Ci misi un po' a realizzare quanto era accaduto, e fu solo perché vidi il corpo inerme della mia ragazza, sulle mie gambe. Mi svegliai completamente da quello stato di stordimento in cui vagavo, il dolore passo completamente in secondo piano. Beatrice respirava a stento, avevo il cuore in gola. Diedi uno sguardo ai sedili posteriori, Ludovica non c'era più, Marco invece aveva perso i sensi.

Slacciai la cintura e aprii lo sportello. Afferrai Beatrice e la stesi sull'asfalto. Riuscii a percepire a stento il suo respiro per quanto fiacco fosse.

"Bea." Sussurrai, accarezzandole il viso. Aveva una ferita a lato della testa, perdeva molto sangue, e me ne resi conto solo quando me lo ritrovai sulle mani. Alzai lo sguardo, la gente cominciò ad accerchiare i due veicoli ridotti in lamiere. Notai il corpo di Ludovica più in là, altre persone intorno ad esso, cercavano di capire, di aiutarla, ma lei non si muoveva.

"Marco!" Urlai, in preda al panico. Poggiai delicatamente Beatrice a terra, e andai a scuotere il mio migliore amico. Non potevo affrontare tutto quello da solo, avevo bisogno di lui. Marco sembrò riprendere conoscenza, era spaesato. "Cos'è successo?" Chiese, gli occhi sbarrati. "Bea e Ludovica... non si svegliano, non so che fare!"

Marco fece un balzo fuori dall'auto, ci mise qualche secondo ad intercettare Ludovica. Percorse quella distanza a grosse falcate, barcollando. Aveva una ferita sulla fronte, non doveva stare benissimo.

Strisciai ancora verso Beatrice, in lontananza sentii le sirene dell'ambulanza.

"Piccola mia." Le accarezzai la testa, il piccolo respiro che emetteva era l'unica cosa che mi tranquillizzava. "Apri gli occhi, ti prego." Sussurrai. Le baciai le guance, la fronte, le labbra. Niente, non apriva gli occhi. Una lacrima mi rigò la guancia.

L'ambulanza si fermò davanti ai nostri occhi. I paramedici si divisero tra Bea e Ludovica. Marco urlava, si contorceva a terra, quasi si strappava i capelli. Io ero così sotto shock che non realizzai nemmeno che mi avevano tolto Bea dalle braccia per metterla su un barella.

La collegarono all'ossigeno, le iniettarono quello che pensai fosse una sorta di antidolorifico o qualcosa del genere. Le gambe mi tremavano e non riuscivo a stare in piedi. Bea non si svegliava, pensai che non lo avrebbe più fatto e morii lentamente dentro.

"Rianimazione, forza ragazzi!" Gli altri paramedici urlarono, dove c'era Ludovica. Marco si disperò, urlava anche lui. Corsi verso di lui. "Non si sveglia, Diè. Non si sveglia." Sussurrò, non potei fare altro che stringerlo tra le mie braccia. Pianse sulla mia spalla, i paramedici continuavano a provare a rianimare Ludovica. Le sue labbra erano violacee, aveva graffi profondi sulle braccia, un taglio sotto lo zigomo, e uno altrettanto evidente sul collo. Il volto era pallido, in contrasto con i lividi che iniziavano a formarsi.

"Stop, ragazzi." Disse uno dei paramedici, alzandosi. "Non c'è più niente da fare."

Marco rimase inerme per qualche attimo. Cadde sulle sue stesse ginocchia e gattonò fino al corpo, ormai privo di vita, della donna che amava. "Piccola, sono io, sono qui." Le baciò le labbra, piano. "Tu devi svegliarti, non puoi lasciarmi solo qui. Insieme sempre, ricordi?"

"Mi dispiace." Un paramedico lo tirò via, qualcun altro coprì il corpo con un telo di plastica argentato.

Corsi di nuovo verso Bea, con le lacrime che mi rigavano le guance e le urla di Marco in sottofondo. Se Bea ce l'avesse fatta, avrebbe dovuto sopportare il peso della perdita della sua migliore amica. Non sapevo se fosse stata forte abbastanza.

"Dobbiamo andare in ospedale, altrimenti non ce la farà." Una dottoressa disse, poi guardò me. "Lei è il fidanzato?"

Annuii velocemente. La dottoressa non parlò, semplicemente mi offrì la sua mano e mi aiutò a salire sull'ambulanza.

Costrinsero anche Marco a salire, che cadde in uno stato di mutismo, sembrava che ancora non realizzasse. Guardava me, poi Bea, poi i medici. E poi abbassava il capo.

Ed io per tutto il tragitto guardai il corpo di Bea, pallido, ma non troppo. Le avevano fasciato la testa e bloccato il collo. Iniziai a notare i vari lividi che le coprivano le braccia scoperte, e i tagli che aveva sul volto.

Era irriconoscibile.

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