Capitolo 33

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Il mattino seguente, mi svegliai con le braccia di Diego strette attorno i miei fianchi, il suo petto compresso contro la mia schiena. Era assurdo il senso di beatitudine che provavo nel sentire il suo cuore battere contro la mia schiena, scandito da un ritmo regolare e lento. Mi voltai piano verso di lui, cercando di non svegliarlo. Mentre dormiva sembrava anche più carino, sembrava in pace con se stesso. Mi chiesi se quell'accenno di sorriso fosse perché stava sognando, oppure si era addormentato così, stringendomi tra le sue braccia.

Diedi uno sguardo veloce all'orologio appeso al muro, di fronte al letto. Erano appena le nove e, anche quel giorno, non avevo dormito per niente. Però avevo uno strano senso di sollievo nel petto, attribuii tutto al biondo che in quel momento mi stringeva. Si stava così bene tra le sue braccia, che quando mi alzai per poter andare a fare una doccia sentii brividi di freddo ripercuotermi la schiena.

Forse una passeggiata mi avrebbe fatto bene. Così corsi sotto la doccia, ed in meno di dieci minuti fui pronta.

Lasciai un bigliettino a Diego sul cuscino che prima occupavo io, in cui gli dissi che ero uscita per un po'.

Milano era già affollata, e faceva già abbastanza caldo, sebbene fossero appena le nove e mezza. Era strano muoversi tra i palazzi di quella città senza sapere con l'esattezza dove mi trovassi. Mi sarei persa, ma in quel momento non me ne interessai e continuai a camminare.

Le persone correvano, correvano come dannati, chi per andare a lavoro, chi con uno zaino in spalla si apprestava a raggiungere la fermata per l'università. Quella città non dormiva mai, e sotto quell'aspetto mi ricordava abbastanza Roma.

Capii di essermi persa quando, dopo essermi immessa in un paio di vicoli, avevo dimenticato quali fossero, ripercorsi al contrario. Sbuffai, guardandomi intorno. Non ero capace di orientarmi nemmeno in casa mia, figuriamoci in una città grande quanto Milano.

Sbloccai il telefono, era quasi mezzogiorno. Non mi ero nemmeno resa conto avessi passato così tanto tempo fuori.

Cercai tra i contatti il numero di Marco, supposi di averlo ancora dagli anni precedenti. Tirai un sospiro di sollievo quando lo trovai, e chiamai immediatamente.

"Bea? Sei tu?" Rispose al secondo squillo.

"Si, scusa. Ho un piccolo problema. Mi sono persa."

Sentii una risata provenire dall'altro capo del telefono, non doveva essere una novità quella, per lui. "Dove sei? Sapresti spiegarmelo?"

"C'è un bar, qui vicino. L'orchidea."

"Hai idea di quanto sia lontano quel bar? Sei uscita alle cinque del mattino?" Mi derise, io sbuffai, passandomi una mano in volto.

"Lo so, ho il senso dell'orientamento di un criceto."

Marco rise. "Sono con Diego, comunque. Aspetta lì e non muoverti, arriviamo."

Lo ringraziai ed attaccai la chiamata. Decisi di andare al bar, almeno avrei potuto prendere un cornetto. Stetti per uscire fuori, col cornetto alla crema che fumava tra le mie mani, quando mi ritrovai a scontrarmi contro qualcuno.

"Mi scusi, non l'avevo vista!" Mi scusai, alzando lo sguardo. Due profondi occhi verdi mi puntarono immediatamente. L'uomo arricciò il naso, la sorpresa era chiara sul suo volto. Il respiro mi morì in gola.

"Papà?" Chiesi, in un filo di voce.

Mio padre mi guardò, non sembrava riuscire a crederci, come se fossi un'apparizione. "Bea." Mormorò, con voce rauca. Dio, il suono della sua voce. Erano secoli che non lo sentivo.

Presto le sue braccia mi avvolsero il corpo, non riuscii a non ricambiare quell'abbraccio. I miei occhi si colmarono di lacrime, mentre mi strinsi nella sua giacca elegante, che gli copriva la camicia azzurra. Mi chiesi come diavolo facesse con quel caldo ad avere la camicia e la giacca, ma non me ne feci un dilemma.

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