Capitolo dieci

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Oggi sono buona 😛

No ok, in realtà pubblico di nuovo perché non vedo l'ora di andare un po' avanti e condividere alcuni capitoli (che devo ancora scrivere, ma che già sento miei). Detto ciò, spero che vi piaccia, anche se questo capitolo è più introspettivo che altro.

Buona lettura!

Camila non aveva dormito serenamente quella notte. A parte che l'hotel era abbastanza gettonato per la posizione strategica lontano dalla strada, ma ciò non bastava a garantire il sonno, dato che il flusso automobilistico veniva soppiantato dal trepestio degli ospiti. La cubana negli anni aveva sviluppato un fastidioso sonno leggero. Quindi, riuscire ad appisolarsi mentre una mandria di rinoceronti dotata di linguaggio transitava vicino all'uscio, non era facile. Ma quella notte erano più rumorosi i pensieri dei passi pesanti. La cubana si girava e rigirava nel letto spasmodica e irritabile, stretta in una tenaglia di frustrazione e angoscia. Dormì appena qualche ora sulle prime luci mattutine, dopodiché l'impietosa sveglia la buttò giù dal letto.

Jessie, Dinah ed Ally si erano accordate per far colazione insieme. Teoricamente era prevista anche la presenza di Camila, ma preferì dormire altri dieci minuti per attenuare il mal di testa e rigenerarsi quel tanto che bastava.

Alle undici in punto, Dinah si presentò alla porta della cubana. Bussò talmente energicamente che il trambusto di cento "rinoceronti" era niente a confronto. Camila si destò di soprassalto, con il mascara appena sbavato e sfocato attorno all'occhio e i capelli scarmigliati sulla fronte. La polinesiana l'avvisò che stavano raggiungendo l'autodromo per assistere alle prove, a porte chiuse, accessibili solamente da un numero circoscritto di persone.

«Vieni con noi?» Domandò Dinah, tentando di non storpiare l'espressione di fronte alle occhiaie livide della cubana.

«Non credo,» disse. «Sono stanca e per niente intenzionata ad assistere ad un nuovo fallimento.»

«Siamo un po' psicolabili stamani...» Mormorò sommessamente Dinah, che incassata l'occhiata bieca della cubana l'ammorbidì con un sorriso tirato.

«Va bene, ti lascio riposare.» Scambiarono gli ultimi convenevoli e la cubana richiuse la porta, inghiottita immediatamente da un buio fatuo.

Si lasciò cadere sul letto, supina, e si cullò nella notte artificiale che ancora sopravviveva dietro le tapparelle serrate della camera. Pochi minuti dopo, bussarono di nuovo.

«Non alzarti, tranquilla!» Era Jessie, la cubana la identificò dalla voce. Sollevò appena la testa giusto per raccogliere l'eco ovattato « Volevo sapere se volessi qualcosa da mangiare.»

«No, grazie.» Mugolò la cubana, percossa da un brivido infreddolito.

«Va bene, si. Noi andiamo, se hai bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, chiama pure.» Si mostrò incondizionatamente disponibile, prima di essere licenziata con un'altra riposta laconica e andarsene.

La cubana adesso sperava che nessuno più le desse il tormento. Era conscia della buonafede delle sue amiche, ma l'unica risorsa di cui aveva bisogno era il riposo.

Passarono circa dieci minuti, dieci minuti di idilliaco sonno, e poi squillò il telefono.

Non è possibile, è una congiura. Pensò Camila, stufa.

La cubana non si dannò per accendere la luce; tastò al buio il disordinato comodino e rintracciò il telefono grazie alla vibrazione annessa.

«Pronto?» Biascicò assonnata.

«Forse è un pessimo momento.» Rispose la voce dall'altra parte. La cubana si stropicciò gli occhi, si girò su un fianco, e si schiarì la voce.

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