Capitolo diciannove

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Se non impari a respirare, qualcuno ti porterà via anche quello. Se invece sei capace di farlo, sai quanto valga la pena mantenerlo.

Dentro, fuori. Dentro, fuori... Si ripeteva la cubana, come una litania primordiale.

In quel momento, con una canna puntata alla tempia e gli occhi iniettati di sangue di uno sconosciuto ad un soffio da lei, l'unica cosa a cui pensava non era la morte, ma bensì come continuare a respirare.

Non si muore prima che venga premuto il grilletto, si muore quando non si ha paura che accada.

E Camila ne aveva un terrore agghiacciante. Obiettivi, mete, promesse, rimorsi, rimpianti, parole non dette e parole dette male... Tutto si sommava in un dimesso respiro. Dentro, fuori.

«Non mi piace chi mi contraddice,» sibilò l'uomo, contraendo il viso in una maschera di più emozioni disgiunte.

«Io sono onesta.» Camila non si fece intimidire dall'eventualità di una pallottola. Ne aveva paura, eccome, ma sapeva che piegarsi di fronte alla paura era come premere il grilletto da sola.

«Onesta, ah! Come puoi essere "onesta" stando accanto a questa?» E di nuovo l'uomo tornò a sventagliate la pistola contro Lauren, lasciando la mandibola di Camila.

La corvina dovette trattenersi per non sospirare sollevata. Adesso, però, anche i suoi occhi erano diventati due proiettili infuocati. La mano dell'aggressore fremeva di fronte a quello sguardo imponente e imperioso, tanto che dovette afferrare l'impugnatura con due mani per celare il tremolio. 

Il respiro pesante e talvolta zufolante dell'uomo era l'unico suono percepibile nella stanza. La cubana si fece avanti; non sopportava di vedere quella pistola puntata contro Lauren, e quasi quasi preferiva averla su di se. «Devo contattare la polizia, riferire le condizioni dell'agente.»

«Qui decido io!» Sbraitò, colpendosi la fronte più volte.

Lauren e Camila si scambiarono uno sguardo. Entrambe avevano imparato molto l'un l'altra, e mai come prima d'allora erano pronte a fruttarlo.

«Se non mi lascerai chiamare Miller, manderà una squadra speciale. Non credo tu voglia questo.» Insistette la cubana, squadrando scrupolosamente ogni minimo gesto dell'uomo.

Questo prese a ragionare fra se e se, sommessamente, ridacchiando ora arrabbiandosi dopo, calcolando e ipotizzando... Infine, in quelli che furono non più di una presa di secondi, lui le fece segno con il capo di afferrare la cornetta.

La cubana non se lo fece ripetere. Si diresse spedita e sicura verso il telefono, ma prima che potesse comporre il numero l'uomo le bloccò la mano, di nuovo, e la fulminò con sguardo assatanato: «Se fai qualche sciocchezza, ti faccio saltare il cervello.» La mise al corrente, senza alcun superlativo.

Camila deglutì, ma non si scompose. Annuì fievolmente, fieramente, quindi le venne accordato il beneplacito di articolare il numero sul tastierino. Risposero quasi subito.

«Perché ci hai messo tanto?!» Si infervorò subitamente il detective, seccando non poco la cubana.

«Non sono proprio andata a prendermi un caffè.» Rispose sarcastica questa, spiazzando gli astanti.

Ci fu qualche minuto di silenzio, poi Miller glissò sull'arroganza della cubana -che sicuramente avrebbe poi avuto modo di criticare-, e le chiese come stavano le cose. Camila fornì un quadro più possibilmente dettagliato sullo status dell'agente ferito, poi spiegò quello che aveva potuto fare e dichiarò infine di non aver visto nessun foro d'uscita. Dovevano intervenire immediatamente, per salvare la vita all'uomo che tutte le notti sorvegliava il corridoio sonnecchiando, e ora rischiava di non svegliarsi più.

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