FIRST LOVE (pt.5)

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(44) November 5th, 2015 - Thursday

La batteria del cellulare di Jimin era morta.

Considerando la luce naturale potevano essere le sette, le otto di sera.

Stava camminando da quello che sembrava un decennio, tutto solo, soletto per le vie residenziali di Seul.

Non erano stati quelli i piani, in realtà. Dopo essere rimasto in catalessi totale nell'aula di musica ed essere stato sbattuto fuori dai bidelli, i suoi pensieri erano subito volati ad amici, locali, paesaggi notturni. Aveva preso un autobus con destinazione il centro, ma si era ritrovato a scendere alla primissima fermata.

Da quanto era che non tornava a casa?

Secondo i suoi calcoli da lunedì.

Jimin non poteva credere di aver davvero passato quattro giorni senza far vedere la sua faccia a sua madre. Okay, si erano scambiati un paio di messaggi quando le aveva riferito che sarebbe rimasto a dormire da Jungkook, ma per il resto il vuoto più totale.

Così era sceso e aveva deciso di farsela a piedi.

La strada era lunga, ma in quelle condizioni Jimin non si faceva certo problemi per il tempo che avrebbe perso. Tanto non avrebbe combinato nulla di buono neanche una volta arrivato.

Si sentiva prosciugato. Completamente prosciugato.

Come se le emozioni ed i pensieri fossero stati talmente tanti che arrivati ad un certo limite si erano dati alla fuga per evitare di fargli saltare il cervello. Si limitava a mettere un piede davanti all'altro per inerzia, la testa di una leggerezza pericolosa.

Se c'era una cosa che Jimin desiderava in quel momento, quel desiderio era uno dei suoi vecchi felponi con il cappuccio dai colori smorti. Forse con quello addosso sarebbe riuscito a mimetizzarsi almeno con il cielo plumbeo.

Per l'orario a lui sconosciuto a cui arrivò all'inizio della sua via, c'era il crepuscolo. I lampioni illuminavano già tutto con la loro luce biancastra nonostante per la strada ci si vedesse ancora.

Jimin non ebbe neanche il tempo di crollare dalla stanchezza una volta per tutte alla vista della propria casa, perché il destino quel giorno pareva avercela a morte con lui.

Fu proprio calando lo sguardo da uno dei suddetti lampioni che il ragazzo notò i volantini. Erano del classico formato da stampante ed erano a decine. Parevano essere ovunque: appesi ai lampioni, appiccicati sui cancelli delle case, a infestare i muretti. Addirittura ce ne erano di caduti a terra, marchiati dai pneumatici di un'automobile.

Più Jimin si addentrava per la via, più ce ne erano. Erano impossibili da non notare, come uno stormo di carta schiantato a terra. Se fossero stati presenti anche per le strade che aveva appena percorso se ne sarebbe accorto.

Un leggero venticello ne sollevava gli angoli, mostrandogli il contenuto in controluce; preso un minimo dalla curiosità, il ragazzo si avvicinò ad un palo della luce e ne appiattì uno.

Jimin ne aveva vissuti parecchi di brutti momenti, ma quello li batté tutti.

Era una foto in bianco e nero. Si trattava evidentemente di un fermo-immagine fatto da un cellulare considerando tutti i vari loghi delle app che incorniciavano uno dei lati corti. Al centro si poteva vedere una massa mal definita di braccia e gambe, un groviglio di corpi nudi, i volti non visibili per via dell'inquadratura.

Se ci fosse stato qualche dubbio in merito all'identità dei due protagonisti era chiarito dalla stanza di Fred Johnman che fungeva da sfondo e dal numero privato di cellulare di Park Jimin, scritto a caratteri cubitali da un pennarello rosso.

L'apatia che aveva afflitto Jimin per tutto il pomeriggio gli scivolò giù dalle spalle come olio sull'acqua.

Volò di palo in palo, di cancello in cancello, di muretto in muretto. I volantini erano tutti identici, l'unica cosa a cambiare erano le calligrafie e i colori con cui insulti e nomignoli facevano compagnia a quella manciata di cifre. Jimin iniziò a staccarli tutti quanti, uno per uno, senza curarsi minimamente dello scotch che rimaneva attaccato alle diverse superfici.

Nel giro di un minuto, tra le sue braccia si era già formato un bel bouquet di carta stropicciata, il premio di una sgualdrina.

Jimin continuava imperterrito a staccare, staccare, staccare, e più staccava più i suoi occhi si facevano umidi.

Che stupido che era stato a pensare che la cosa non gli faceva ne caldo ne freddo. A dirsi che poteva benissimo passarci sopra, che tanto il suo era solo un corpo nudo, niente che la gente non avesse mai visto, colto in un'azione che non fosse niente che la gente non avesse mai fatto.

C'erano delle cazzo di foto di un suo sex-tape appese per la via di casa sua, dove abitavano le persone che lo avevano visto crescere, dove aveva imparato ad andare in bicicletta, dove aveva giocato per pomeriggi interi con i figli dei vicini e un paio di gessetti colorati.

Dire che Jimin si sentiva totalmente umiliato era un eufemismo.

Vista da fuori, le luci di casa sua erano spente, ma lui sapeva che la sua famiglia doveva trovarsi in salotto, a guardare la televisione dopo aver cenato.

Con quel malloppo di carta sottobraccio, Jimin aprì il portone d'ingresso il più discretamente possibile. Non accese neanche lui le luci, non si tolse le scarpe sullo zerbino come i suoi avevano sempre raccomandato di fare; si infilò subito in cucina prima di poter incontrare qualcuno.

Con la sera che ormai si affrettava ad arrivare, anche quell'ambiente era tutto un grigiore. Jimin andò direttamente allo sportello sotto il lavandino, dove sapeva esserci la pattumiera.

Una voce lo chiamò, qualche stanza più in là.

"Jimin? Sei tu?"

Jimin si affrettò a tirare fuori il cestino del pattume. Sollevò con le mani quanti più rifiuti poté, intenzionato a nasconderci sotto i volantini.

Con i sudori freddi, poteva sentire un rumore di passi farsi sempre più vicini.

Jimin cercò di ficcare più brutalmente tutta quella carta nella pattumiera, ma sembrava essere troppo piena per poterla contenere.

La luce della cucina venne accesa.

Il primo pensiero di Jimin, chino sul pavimento con uno sproposito di volantini fra le mani che lo raffiguravano fare sesso con uno sconosciuto e sua madre alle spalle, fu: voglio morire.

Il suo secondo pensiero fu: voglio morire.

Ci credeva che non riusciva a farci stare i suoi volantini: ora che le ombre erano sparite poteva ben vedere che il fondo del sacco della spazzatura era già foderato da una ventina di fogli identici.

Jimin si appoggiò con il braccio al bordo del contenitore, la fronte che subito ci si nascose contro. Se avesse avuto con sé quella pozione di Alice nel paese delle meraviglie se la sarebbe trangugiata tutta pur di diventare piccolo, piccolo, piccolo, piccolo.

Si costrinse a parlare, semplicemente perché doveva. Lo fece anche se la voce gli uscì roca, piena di pianto.

Arrivati a questo punto, dopo quella giornata, dopo quella settimana, dopo quell'anno, Jimin non sapeva neanche più per cosa stesse piangendo esattamente.

Piangeva per sua madre, per quello stupido video, per Yoongi, per Chase, per la sua prima volta buttata via.

"Mi dispiace, mamma."

Le sue parole furono seguite da un rumore di chiavi, la zip di una cerniera che veniva sollevata.

Quando Jimin si decise a guardare in su dalla sua posizione accovacciata, sua madre era sullo stipite della porta vestita di tutto punto, la borsa alla mano. Non seppe dire se gran parte fosse dovuta dalla vecchiaia avanzata in soli quattro giorni, ma quella sul suo viso era la più stoica, la più seria, la più autorevole, la più incazzata espressione di sempre.

"Rimetti il cappotto. Andiamo a sporgere denuncia a chiunque sia il bastardo." 

ANATHEMA (BTS FanFiction - Yoonmin)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora