Capitolo 19

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Scendo dall'auto e mi guardo attorno. Sono passate poco più di due settimane, ma è come se fossero state un anno. Il cortile dell'azienda è occupato dai camion, arrivati per caricare la merce. Matteo gesticola per farsi capire dagli autisti. Lo noto immediatamente e non posso fare a meno di sorridere. Alessia ed Alice arrivano alle mie spalle, abbracciandomi. "Bentornata, Marta!". Saliamo e ci mettiamo al lavoro. Una pila di documenti arretrati mi attende di fianco al computer. "Com'è tornare dopo...sì, insomma...quello che è successo?".

Appoggio il caffè sulla scrivania e mi giro, sospirando. "Molto difficile! Ma, da qualche parte, si deve pur iniziare per tornare alla normalità". Alessia annuisce. "L'importante è che tu stia bene! Ah, scusa se abbiamo detto a Matteo della tua gravidanza. Mi sembrava opportuno che lo sapesse". Sorrido. "Tranquilla!". Dopo la pausa caffè, riprendo il lavoro immergendomi completamente tra le pile di documenti. Tenere la mente occupata mi evita di pensare a tutto ciò che è successo. Anche se, ogni tanto, appoggio ancora istintivamente la mano sul ventre. La giornata passa in fretta.

All'uscita dall'ufficio incrocio Matteo, intento a fumare una sigaretta. Mi avvicino a lui. "Ne hai una anche per me?". Mi passa il pacchetto e l'accendino, tenendo puntati i suoi occhi su di me. "Scusa? Da quando fumi?". Sorrido ed espello il fumo. Alzo le spalle. "Da un paio d'anni. Ma non regolarmente. Una ogni tanto". La mia mente torna per un attimo a due anni fa, quando ho condiviso una sigaretta con Alessandro, a casa sua. Rimaniamo in silenzio mentre fumiamo le sigarette. "Tutto a posto?" mi chiede, gettando il mozzicone. Annuisco e getto anche io il mozzicone. "Ora vado!". Non vedo l'ora di arrivare a casa per farmi una doccia. Ne ho davvero bisogno. Scrivo ad Alessandro e parto.

Alessandro

La serata limpida mi invita a trascorrere del tempo fuori. A farmi compagnia, sul divanetto in finto vimini, una birra bionda e le mie riflessioni. Sorrido pensando a lei. Mi sono innamorato di lei quando ero immaturo. Non avevo capito niente del mondo e pensavo di poterlo controllare, come mi illudevo di poter controllare lei. Era bella. Bella da morire, con quello sguardo da bambina ed un sorriso così contagioso. Più il tempo passava, più imparavo a conoscerla. O, almeno, pensavo che fosse così.

Scoprivo quanto fosse forte e fragile allo stesso tempo. Mi sono innamorato di lei perché aveva la straordinaria capacità di farsi odiare ed amare nello stesso momento con un singolo gesto. Ho sofferto perché non sono riuscito ad averla stabilmente accanto a me. Perché troppe volte mi è scappata e ho provato il terrore di perderla per sempre. Ma lei è ancora qui. Continua a farsi maledire per un secondo. E a farsi amare per tutto il resto del tempo. La amo com'è, per quella che è diventata e per quella che era. Se davvero il destino esiste, allora staremo insieme.

Appoggio la bottiglia ormai vuota sul tavolo, alzando lo sguardo al cielo. La luna splende, ed illumina come una lanterna il giardino. Alzo i piedi, appoggiandoli sul tavolino. La suoneria del mio cellulare interrompe di colpo tutte le mie riflessioni. Un numero sconosciuto mi sta chiamando con insistenza. Rispondo, facendo un grosso respiro e mordendomi la lingua per le imprecazioni. "Pronto?". "Conti? Alessandro Conti?". Quella voce l'ho già sentita. "Francesco Rossi? Sei tu?". Rimango sorpreso. "Alessandro! Quanto tempo, vecchio mio!". Tutto il mio corpo entra in uno stato di agitazione. Una sua chiamata, dopo tutti questi anni, può voler dire solo una cosa: guai. Tanti guai. Francesco è sempre stato una calamita per qualsiasi tipo di evento nefasto. E nessuno è mai riuscito a togliermi un dubbio che mi attanaglia da quasi vent'anni. Che sia coinvolto in qualche modo nella morte di Elisa. "Qual buon vento, dopo tutto questo tempo?". Faccio una smorfia. "Dai, Ale! Non è che debba per forza essere successo qualcosa se ti chiamo!". "Va bene. Quindi?". Inizio a spazientirmi. "Ecco, in realtà ti devo parlare. Abbiamo qualcosa in sospeso da molto tempo". Come immaginavo. Concludo la telefonata. Dell'atmosfera rilassante di qualche minuto fa non è rimasta traccia. Avremo modo di chiarirci domani. Prendo il telefono ed inizio a scorrere le foto della galleria. Un paio di foto attirano la mia attenzione, provocandomi un po' di nostalgia. Le foto di me e Marta, la sera in cui le ho dato l'anello, al mare. Lei è bellissima, con quella luce negli occhi. Le stampo e le metto in una cornice che posiziono sul mobile vicino all'entrata. Perché quando si fa una cosa alla luce del sole si perde l'ebbrezza di farlo di nascosto c'era quell'euforia che non ti spieghi. È così e basta.

Cammino avanti e indietro, di fronte all'entrata del bar "Sensation", guardando l'orologio. Francesco è in ritardo. Come sempre. Il lupo perde il pelo, ma non il vizio. Alzo lo sguardo, e la persona che vedo arrivare non è quella che aspettavo. Simone Dal Basso. "Che ci fai qui?". Il mio battito accelera. "Mi ha chiamato Rossi. A quanto pare, ha chiamato anche te!". Giuro che se non fosse il padre di Marta, e se non fossi cambiato, l'avrei già preso a pugni. Continua a mantenere la sua aria strafottente. Rimango in silenzio, tentando di sbollire la rabbia. Francesco ci raggiunge. Entriamo nel locale e ordiniamo tre birre. "Allora, come mai questa rimpatriata, Rossi? Sentivi la nostra mancanza?". Non riesco a non soffocare una risata. Beve un sorso di birra. "A dire la verità, avrei fatto volentieri a meno di questo incontro. Non ci tenevo particolarmente a rivedervi". Lo guardo. Per una volta, siamo d'accordo su una cosa. "Se vi ho contattato, c'è un motivo. Si è fatto vivo l'avvocato della famiglia di Elisa. Ha detto che vuole parlare con tutti e tre".


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