23° capitolo

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«Non ti perdonerò per aver deviato la vita perfetta di mia figlia. Mai.»
La signora dallo sguardo magnetico ostentò la sua dentatura da urlo in un accattivante sorriso.
«Potrei concederti però la possibilità di redimerti.»

Modulò la voce con malvagia pacatezza, lasciando presagire a nulla di buono.

Francesca sollevò appena la testa, in segno d'ascolto.

«D'accordo...»

Gli occhi di ghiaccio si assottigliarono con una grinta inaspettata e Francesca aumentò il tono, decisa.

«Ma ad una condizione.»

La donna sciolse l'incrocio delle sue braccia, per poi porgere la propria mano alla professoressa.

«Bene. Piacere di conoscerti, Malferrari Francesca.
Io sono Barbara Montechi

•••

Un corpo sospeso in un fiume d'inchiostro e oscurità, in un universo dove a calore e luce non era concessa l'entrata, rimaneva incastrato nella morsa costante della corrente. Non si muoveva, moribondo, disteso supino con il bianco viso rivolto verso l'alto.

Ammesso che in quell'universo esistesse l'alto.

I muscoli del viso rilassati in un'espressione inesistente, talvolta contratti solo dagli impulsi carnali dei nervi.

Le palpebre a metà, gli occhi vitrei e inanimati fissavano un punto nel vuoto, senza vederlo.

Le labbra schiuse, quanto bastava per dar via libera a bollicine d'aria, che con una lentezza inesorabile, scappavano agli inermi polmoni, senza che questi, in alcun modo, si sforzassero per bloccarne la fuga attraverso la bocca.

E così rimaneva immobile, stanziale nella sua fermezza senza tempo, con gli arti tesi e i palmi delle mani aperti su un cielo assente.

Fino a quando la stessa massa paludosa e spettrale che lo teneva incastrato sull'alveo di quel fiume informe, lo lasciò arrivare a due spanne dalla superficie, vicino, ma allo stesso tempo troppo distante per riuscire a toccare il pelo dell'acqua.

Una piccola scossa diede l'opportunità a una delle braccia di muoversi, questa si protese verso il proprio riflesso frastagliato e deforme che si instaurava sopra, in quella che era la parete, lo specchio frantumato sotto alla pelle del fiume di pece.

I bulbi oculari si mossero, ripresero vita dopo il lungo sonno, iniziando ad analizzare la figura irregolare dinnanzi.

E il tempo si rifiutò di scorrere, ancora, imprigionando quel corpo in uno stato di trance molto più profondo.

Non si scostò nulla, solo il continuo ondeggiare scomposto che riduceva il riflesso a un cumulo di cocci in una perenne danza. Un movimento tranquillo, non sospinto da alcun vento, né provocato da un azione lontana, semplicemente un ondeggiare continuo, sregolare nella sua immutabilità.

Piano però, la superficie, vista dal basso, cominciò a rallentare la sua attività, fino a quando il livello del fiume non si arrestò completamente.

Adesso era nera e scura ossidiana.

Il riflesso era ben marcato, i lineamenti del corpo erano perfettamente disegnati sotto quello specchio scuro come lo spazio.

Il braccio teso era rimasto tale e le pupille avevano ricominciato a spostarsi, nel tentativo di analizzare la propria immagine.

Si soffermarono sul volto, inespressivo e privo di tratti vitali, coperto solo da un velo di chiarore cadaverico.

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