24º capitolo

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Una porta s'aprì e il suono di una serratura arrugginita cantilenò, subito dopo un paio di suole a calpestare l'aria stantia.

Passi impazienti si avvicinarono al letto e una scia d'angoscia si nascose tra le lenzuola e il pigiama.

«Beatrice!» un tono familiare le tuonò nelle orecchie, troppo brusco e preoccupato allo stesso tempo per non turbare il macabro silenzio di quel posto, concluse poi in una nota nervosa.

«Mi hanno contattato subito appena ti sei svegliata, sono corsa da te, tesoro.» pian piano la figura sbiadita che le si era piazzata davanti, prendeva forma, i tratti si fecero più nitidi e l'alone di nebbia, provocato dal precedente sonno, si diramò ai lati del suo campo visivo.

Sbatté le palpebre in un guizzo di confusione.

«... Mamma» un fiato di voce uscì dalla sua bocca secca.

«Va tutto bene. Riposati. Parleremo più tardi.» adesso Barbara era calma, il fermo sussurro che le trapelava al di fuori delle labbra sfiorava la figlia, quasi temesse che un tono più alto potesse spingerla, come fosse in bilico, nella gola di un precipizio.

Ma Beatrice era Beatrice non a caso, rimandare il discorso non le avrebbe fatto piacere nemmeno nelle precarie condizioni in cui versava, tantomeno sopportava l'idea di essere accantonata dalla madre che era venuta a farle appositamente visita. La colpa però era sua e non poteva biasimare le azioni di nessun altro.

Che sciocca.

Sapeva di avere un'eterna lotta nel suo cuore, sentiva che prima o poi avrebbe dovuto affrontare tutti i suoi demoni e, per carità, sapeva anche che uscirne illesa sarebbe stato impossibile.

Lei aveva giurato, si era illusa di poter vincere, ne era stata sempre più che convinta.

Ma in una tempesta di emozioni nere Beatrice era rimasta strozzata.

Inerme.

Schiacciata dalla scoperta di essere molto più infelice di quanto credesse, straziata nel profondo quando suo padre minacciò di strapparla all'ambiente in cui era cresciuta, alle sue grandi amiche da cui allora si era erroneamente allontanata, alle strade percorse per andare a scuola e infine alla persona che più la rendeva libera, sé stessa, leggera da quei lugubri pensieri, Francesca.

Aveva perso la guerra contro il lato più oscuro di sé e adesso ne assaporava la sconfitta, il suo acido veleno. Che altro non era se non il risultato vomitevole del pranzo inscatolato dell'ospedale, le medicine da voltastomaco e la consapevolezza di aver sbagliato.

Madornalmente sbagliato.

Sbagliato non solo ad agire impulsivamente, ma anche di non aver chiesto aiuto, di essere rimasta schiava della propria presunzione, cane del proprio orgoglio, l'infimo padrone che non le aveva permesso di essere accarezzata da altre persone. Persone buone, che le avrebbero teso la mano solo al suono della sua prima supplica.

Persone probabilmente molto diverse dai suoi genitori.

Sul viso di Beatrice verniciò un cupo quadro, scuro e catramoso come la pece.

Il cuore chiuse i portelli, serrò i boccaporti, riavvolse l'ancora e salpò fin dentro al petto, tra le costole, nel suo mare di solitudine. Questo poi si arenò in una stretta baia fredda e buia, come il relitto di una nave cenciosa, marcia di dolore, proprio lì, il cuore avvizzito tra i polmoni.

Così.

Scordò il meraviglioso veliero che era stato tempo prima, soppresse i suoi tesori più grandi nei ventricoli e li infradiciò di tristezza.

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