Capitolo 5

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{ Coraline }

Non sai più che giorno e che ore sono, quando vedi solo buio e sei distesa ancora su un fottuto lettino.
Mi domando quanto sia passato. Sembra un'eternità ma magari sono pochi giorni.
Non riesco a contare o fare un resoconto.
Dormo a fasi alterne. Rifiuto ogni genere di cibo, per il mio orgoglio che non si prostrerà mai ai piedi di questi due psicopatici.
Mi domando se Jonas mi stia cercando.
Se a lavoro si chiedono che razza di fine abbia fatto.
Forse é solo una mera illusione la mia, ma voglio sperare che qualcuno lì fuori si preoccupi di me.
Mio padre? Lui? Sarà disperato anche lui?

Sono così vuota, che una bambola di pezza é più piena di me, all'interno.
Ogni muscolo grida di dolore, che non mostro al di fuori.
Se pensano di schiacciarmi come un'insulsa formica, non hanno capito un bel niente.

Fisso pensosa il soffitto, che in questo momento non ha un reale colore, finché non sento il cigolio sinistro della porta aprirsi.
Persa nei miei pensieri non avevo avvertito neanche la chiave girare nella toppa.
Un brivido mi scende dalla nuca, fino al fondoschiena in un rivolo di sudore freddo che ricopre di bordoni il corpo inerme.
Ho paura di scoprire che sia l'uomo dagli occhi di ghiaccio.
Ho paura di ciò che ogni volta leggo dentro di essi.
Odio. Rabbia. Follia. E dolore. Tanto, immenso, devastante, lacerante dolore.
Non un briciolo di passione. Non un briciolo di insulsa dolcezza.
É una lastra di ghiaccio che neanche il cuore più caldo può sciogliere. 

Cerco di innalzare più che posso il collo, allungandolo e scopro per mia fortuna, che é lo psicopatico pompato.
Lui sembra più "normale" se così si suol dire. Insomma due soggetti che tengono una donna innocente, legata su un letto, qualche disturbo devono pur averlo.
E tra l'altro lui nemmeno parla, il che non so quanto possa essere considerato buono.
Magari é sordomuto, e non posso neanche applicare le mie doti sul linguaggio del corpo.

Tra le dita, stringe un bicchiere ricolmo d'acqua, che ho paura possa frantumarlo.
Ho sete. Una sete disperata. Come camminare per chilometri in un deserto e cercare una fonte dissetante per non morire disidratata.
Se fosse stato il Pitbull avrei rifiutato, ma metto da parte un po' di orgoglio per accettare il bicchiere che mi poggia sulle labbra.
Do una lenta sorsata che quasi mi va di traverso, ma sentire l'acqua inumidirmi le labbra arse e scendere lungo la gola in fiamme, sembra il più bel dono ricevuto in tanti anni.

Mi lascio scappare un sorriso, quando mi sottrae il bicchiere, dove un po' d'acqua mi cola sul mento.
Vorrei urlargli contro, poiché si allontana.
Ma invece di andarsene, posa il bicchiere sul tavolino, e ritorna da me dove tra le dita oscilla  una piccola chiavetta.
Quella di cui parlava il Pitbull senza nome.
Un uomo che per me non ha né arte né parte.
Un semplice maniaco. Forse lui mi libererà.
Potrò sporgere denuncia con Jonas.
Raccontare questo assurdo incubo a Megan.
Oh signore, non ci posso credere.

Il clic che emette la chiave sulle cinghie, é come una benedizione caduta dal cielo.
Rido di pura gioia. Ma dura un attimo, che provo a scendere e allungare le mani verso di lui.
Colui che mi butta di schiena contro il muro. L'impatto mi toglie l'aria dai polmoni, facendomi spalancare le labbra.
Il sedere ancora schiacciato sul lettino dove le molle cigolano, e la sua grande mano racchiude in una morsa, più dolorosa delle cinghie, entrambi i miei polsi che cercano di divincolarsi vane. 

«Lasciami andare, lurido maniaco.» e Fanculo se non mi sente, non parla o non mi capisce. Strepito assertiva con tutto il poco fiato che mi é rimasto, dibattendomi a più non posso. Le gambe cercano di scacciarlo, ma il suo ginocchio che si piazza nel mezzo, ferma ogni mia intenzione.

I bulbi si appannano, per la voglia di piangere. Ma maledetta me se dovessi dimostrare segni di cedimento e di paura, difronte a questo energumeno.
«Ribellati di nuovo, e il capo ti farà rimettere le cinghie.» Ah ma quindi il gatto non gli ha morso la lingua. La sua voce tagliente e dal timbro forte come un soprano, mi fa intendere che non posso fare nulla, e che il Pitbull é il capo.
Il capo di cosa?

«Capo di cosa? Dove sono?» pongo domande a raffica con il suo stesso tono incattivito.
Passano minuti in cui sta in silenzio e neanche mi accorgo che mi ha legato i polsi con uno spago, e ha fatto due passi indietro.
Maledetto!

«Ti ho detto dove sono? Siete due malati di mente.» Sputo fuori di me, tutto l'astio che ho covato in questo tempo. Tempo che non so effettivamente quanto sia, ma la mia rabbia é superba.

Piega la testa di lato, come a soppesare se rispondere o meno. Oppure se uccidermi per avergli dato di malato.
E se vuole glielo ripeto anche. Se pensa di intimorirmi con questi mezzucci degli occhi assottigliati e le labbra strette tra loro sta errando.

«Hai esaurito le pile?» Mi prendo anche l'agio di beffeggiarlo. Tanto comunque non parlerà. E se vorrà uccidermi lo farà lo stesso. Tanto vale essere la Coraline insolente.
Troppa gente mi ha dato ordini nella mia vita, che ora sta venendo fuori tutta la mia voglia di rivalsa.

Lo fisso spavalda e sicura di me, quando dei passi fieri spezzano il silenzio plateale.
Un sospiro rimane a schiacciarmi lo sterno, e ho paura anche di muovere le pupille.
Il collo si irrigidisce. Il ventre si contrae, e la bile mi strozza la gola di nuovo arida come il Sahara.

«Dominick, lasciaci soli.» Il suo é un'ordine impartito con energía, dove il malato Dominick acconsente con un cenno del mento appena abbassato, defilandosi.
Il rumore della porta che viene richiusa con grinta, mi fa sobbalzare e ammetto che davanti alla figura del Pitbull sono intimorita.
É meno piazzato di Dominick, ma emana una forza disarmante.
Porta un'aurea di tenebre, in cui ti avvolge e ti stritola.

Non mi guarda. Sembra perso nei suoi pensieri, e mi permetto di osservarlo.
Le dita lunghe corrono tra i capelli tirati indietro dal gel, facendo rialzare qualche ciocca.
La camicia fuori dai pantaloni gessati, striminzita, e quattro bottoni perlati della camicia, sganciati.
Osservo il petto glabro ma ciò che mi fa rimanere ammutolita é una macchia scura che spicca tra i pettorali tonici.
Un tatuaggio. Un serpente snodato, dove la coda va sotto il pettorale destro, e la testa con la lingua rossa che spunta da fuori si alza maestosa sul pettorale sinistro, quasi vicino al collo.
É un cobra reale.
Luí é come quel cobra.
Spaventoso e velenoso come esso.
E io sono solo un topolino, che prima o poi verrà inghiottito.
Sarò il suo pasto.
Ma quel giorno non sarà oggi, e nella mia testa non lo sarà mai.

Si ferma al centro della stanza, girato di spalle. La camicia lo fascia perfettamente ed é impossibile come una creatura così perfetta, sia un'essere meschino.
Un sospiro fuoriesce dalle mie labbra, forse soprappensiero.
E capisco che l'ha avvertito, quando compie una mezza torsione del busto. Il volto si gira a metà, dandomi una porzione più del profilo, e i suoi occhi glaciali si tuffano dentro i miei che vengono freddati da quel mare nordico.
La linea delle labbra dritta, si innalza in un sorriso sfacciato, dove si passa il pollice.
Il suo sguardo scivola inebriante lungo il mio corpo che anche non volendo si surriscalda, anche in un posto in cui nessuno ha mai avuto accesso. Nessuno ha mai acceso.

«Coraline, Coraline...» E non so cosa preannuncia, il mio nome suonato su quella lingua da peccatore e aguzzino.

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