Capitolo 6

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$Alexander$

Diciannove anni fa. (Bronx)

Il caldo afoso, riempiva le strade trasandate della periferia di South Bronx.
Un piccolo zaino stava iniziando a gravare sulle mie spalle magre.
Barboni accostati su i marciapiedi, con delle frasi scritte su delle vecchie scatole di cartone, per impietosire i passanti.
Quasi tutti furfanti, malviventi, killer dei sobborghi.
Avevo con me poche cose. Qualche maglia e due paia di pantaloni, presi alla rinfusa, mentre ai piedi avevo delle vecchie scarpe da ginnastica malconce e usurate.
Nessun penny, niente di niente.

Ero scappato dalla mia famiglia.
Un sorriso amaro si stagliò sul mio volto ancora da bambino. Undici anni appena compiuti e con un unico desiderio.
Le maestre a scuola credevano che volessi una famiglia unita. Quanto si sbagliavano.
Mio padre era una bestia. Tutti lo conoscevano come il "Tritatore".
Finito in galera ben dieci volte, tutte le volte scarcerato da un avvocato che per farsi valere salvava il culo a mio padre, mentre sfondava quello di mia madre.
Era un'assurdità, quasi una blasfemia dare tali nominativi a due persone sconosciute.

Già. Loro per me non erano nessuno, e io solo un'errore venuto fuori. Era troppo tardi ormai per abortire, quando se ne accorsero, e così ero uscito fuori. Messo al mondo per sbaglio.
Ero uno sbaglio grave per loro.
Non ero stato neanche battezzato.
Non ero stato considerato.
La mía colazione era pane raffermo di chissà quanti giorni.
A scuola andavo a piedi, poiché loro passavano interi giorni a bere, picchiarsi, scopare e dormire.
Non parlavano con me, e io non rivolgevo parola neanche a loro.

Camminavo senza una meta precisa, convinto che comunque i miei non si sarebbero preoccupati, di dove fosse scappato lo "sbaglio."
Non ho mai sofferto della mancanza di affetto.
Ad essere onesto, non me ne é mai fregato niente.
Come puoi sentire la carenza di qualcosa, se non l'hai mai neanche assaggiata?
Non puoi. E per me era esattamente così.

Schivavo infastidito ogni sguardo.
Ma non abbassavo mai la testa.
Gente ubriaca che lasciava i night club.
Qualche puttana addossate vicino a pali e muri scrostati, aspettando che passasse qualcuno per ingropparle.
E ogni tanto mi fermavo a dormire vicino la stazione delle metropolitane.
Avevo imparato dopo un mese anche io a chiedere l'elemosina.
Un bambino solo, sporco e deperito, provocava un senso di pietà.
Odiavo vedere gli occhi dei passanti, che mi studiavano con compassione.
Occhiate tristi e sorrisi dolci per il povero bambino.
Non volevo la pietà di nessuno, ma mi servivano i soldi, anche se ogni tanto riuscivo a rubare del cibo dietro le cucine dei ristoranti giapponesi senza essere visto.
Molto spesso rovistavo tra i bidoni, per cercare qualche lenzuolo che mi coprisse, quando scendeva la notte e il vento si innalzava.

Sopravvivere per vivere, o vivere per sopravvivere?
Non lo sapevo più. E ogni giorno cercavo risposte al mio quesito.

Quando raggiunsi l'età di dodici anni, dopo aver vissuto per un anno di stenti, fui raccattato come un cagnolino randagio, da un signore benestante, che mi trovò accartocciato su me stesso, in un angolo della metropolitana.
Mi portò a casa sua.
Sua moglie mi accolse un po' titubante, ma chi mi accettò con più riluttanza di tutti, fu suo figlio più piccolo di due anni.
La cattiveria che serpeggiava nei suoi occhi.
Il suo gridarmi contro con perfidia che io ero solo un reietto della società.
Un senzatetto.
Un abominio.
Non ero nessuno.
Mi fecero riflettere che alla domanda che mi pose un ragazzino fuori dalla metro aveva avuto risposta.

«Scommetti un penny che indovino i tuoi desideri, Alex?»

Allora replicai.

«Non ho desideri, e se li avessi tu non sei il genio della lampada, per farli avverare.»

Alexander Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora