Roma, 5 Dicembre 1999
L'ascensore impiega per fermarsi un tempo che a Luca sembra sempre più lungo ogni volta che torna nel palazzo nel quale è cresciuto. È un grosso edificio abbastanza moderno e anonimo, con molte scale nelle quali da bambino si perdeva puntualmente quando cercava di andare a trovare i suoi amici.
Le porte metalliche dell'ascensore si spalancano. Il pianerottolo non è cambiato affatto, solo gli zerbini davanti agli usci sono stati sostituiti. Luca si ferma davanti alla porta in fondo al corridoio e inizia a frugare nelle tasche alla ricerca delle chiavi. Un senso di inquietudine lo assale.
È difficile immaginare qualcosa di più doloroso che tornare in un posto dei nostri ricordi una volta impregnato di voci e allegria che si è fatto tetro e trascurato nel corso degli anni: ci fa capire la dimensione del tempo che passa.
Quello è l’appartamento della sua infanzia e il segno tangibile di quanto essa non sia più raggiungibile. Quando Luca gira la chiave nella toppa spalanca la porta, l'uomo viene investito da un odore di muffa e urina che qualcuno ha cercato di nascondere disperatamente con detergente all'odore di limone e deodorante per ambienti.
“Chi è?”, una voce sottile e spaventata proviene da un angolo del salottino illuminato appena dalla luce del sole che filtra attraverso le tapparelle abbassate. Chi dovrebbe essere? Luca sospira.
“Sono io, mamma", avanza nella penombra con passo lento e circospetto, come un addestratore alle prese con un animale selvatico.
Vede gli occhi appannati della vecchietta brillare nel buio. È seduta su una poltrona verde una volta soffice e ora lisa e sfondata. Ogni domenica Luca si stupisce di quanto sia sempre più magra e pallida. Il viso è una maschera di cera bianca, la pelle sottile e increspata da centinaia di rughe. È immobile e calma ma l’espressione è sospettosa. A volte Luca ha l'impressione che lo riconosca solo a metà, che non sappia chi sia ma capisca che di lui si può fidare.
“Sono io, mamma, sono Luca. Sono tuo figlio.” Si avvicina a lei e, sempre stando attenta a non spaventarla, le accarezza la mano. Guardandola negli occhi continua. “Sono il tuo bambino, mamma, sono Luca".
Gli occhi della vecchietta ora paiono trafelati, come se stesse guardando un oggetto molto grande e molto lontano, incombente e spaventoso. “Luca", ripete. All'uomo si stringe il cuore. “Sì, Luca".
“bam … ino", farfuglia ancora la donna. Luca non crede di averla mai vista così poco lucida. Monica, la badante che si occupa della signora quando lui è al lavoro, gli ha detto spesso che sua madre attraversa periodi di totale buio, ma lui non l'aveva mai sperimentato dal vivo. Non credeva che un giorno non l’avrebbe più riconosciuto.
Luca afferra stanco una sedia e la sposta vicino a quella della donna, ma subito la vede trasalire e cominciare ad agitarsi.“No, mamma, non preoccuparti, sono io", si siede, sperando che lei si tranquillizzi nel vedere che la sua alta figura non incombe più su di lei. Sembra funzionare, il viso della donna si distende lo sguardo si fa vitreo e fisso su una lama di luce che filtra dalla tapparella abbassata.
Luca per un attimo teme che la madre se ne sia andata e il panico lo assale. Poi si concentra sui movimenti del petto grigio che si intravede attraverso la vestaglia. Respira.
Luca decide di seguire lo sguardo della madre e di non dire niente. Vorrebbe tanto piangere: lei non lo ha riconosciuto. Ma l’unico posto dove potrebbe abbandonarsi ai singhiozzi sarebbe il suo abbraccio.
Rimane immobile sulla sua sedia, sempre sfiorando la mano della donna, fino a quando il rumore lieve dei loro respiri non di fa assordante. Uno strato di angoscia sembra aver ricoperto ogni cosa, là dentro.
Luca ricorda il giorno in cui tutto si è fermato. È stato dieci anni prima, il giorno in cui è stato licenziato. Era stato il padre, anche lui operaio edile, a farlo assumere lì; la vita che avrebbe avuto era sempre stata scritta e a lui tutto sommato era sempre andato bene.
Ma quel giorno, Luca ne era certo, avrebbe segnato lo stesso una svolta inevitabile nella sua esistenza. Il lavoro che gli era stato imposto e che lui, in mancanza di ulteriori spinte personali e desideri, aveva accettato, non c’era più, e quantomeno alla madre avrebbe dovuto spiegare perché.
Riguardando le stanze ricorda che la donna era seduta al tavolo del salotto, proprio davanti alla cucina. Erano le undici e mezza, c'era tanta luce e la finestra era spalancata. Gli avevano appena comunicato il licenziamento e tornando a casa aveva constatato con desolazione che le strade erano ormai deserte, tutti erano al lavoro.
Ricorda la tristezza ma soprattutto la vergogna. Erano stati chiamati nell’ufficio del loro capo quella stessa mattina. Avevano fatto in modo di farli presentare insieme, lui e Daniele, e i motivi della convocazione erano stati da subito chiari a tutti i loro colleghi. Ha ancora negli occhi i loro sguardi di disprezzo mentre si avviavano verso la stanza.
Le parole con le quali gli avevano dato il ben servito Luca non le ricorda, ma ha impresso chiaro nella memoria il senso di straniamento che gli avevano provocato, non solo perché violente, dolorose, umilianti.
La sua omosessualità per lui non era mai esistita prima di quel giorno. Era sempre andato a letto solo con uomini conosciuti da poco e che non avrebbe più rivisto. Adesso sa che lo faceva perché rivedere una persona e continuarla a frequentare aumentava le possibilità che qualcuno lo scoprisse o che chiedesse spiegazioni, rendendo i suoi sentimenti troppo reali. Daniele era stato l'unico uomo che avesse mai amato.
All'epoca non si dava queste risposte. E non si poneva nemmeno le domande. Se gli avessero chiesto se fosse gay lui avrebbe risposto di no e sarebbe stato in qualche modo sincero: lui non faceva parte di quel mondo, non era un attore di Hollywood o un cantante e nemmeno un attivista che lottava per i diritti di una categoria discriminata. Era solo un operaio romano di media cultura. E le persone normali non sono gay.
Invece era stato licenziato perché era omosessuale. Perché lui era gay. Gli appartenevano tutti gli stereotipi, tutte le colpe e le vergogne di quella categoria e lo capiva quel giorno.
Adesso Luca pensa che gli appartenessero solo le discriminazioni.Quando lui e Daniele erano usciti dall’ufficio del capo non si erano guardati in faccia né salutati. Non si erano preoccupati di avvisare gli altri, si erano avviati ognuno per la propria strada, a testa bassa, umiliati.
Non si erano più rivisti. Era finita così, l'unica relazione della sua vita.Luca ricorda il momento in cui entrò in casa di sua madre quella mattina, sa che la vide in piedi davanti alla cucina. Lei si sorprese nel vederlo a quell'ora a casa e capì che qualcosa non andava. Lui la fece sedere e poi si mise vicino a lei.
Di nuovo non riesce a ricostruire cosa le disse. Deve averle spiegato, deve averle confessato tutto senza tralasciare il minimo dettaglio, perché è questo che ricorda, ma il discorso che fece, per quanto sentito, per quanto sofferto, non fu importante, perché non ebbe conseguenze. Non che sua madre l'avesse accettato. Lo ha ignorato piuttosto, come lo aveva ignorato lui per anni. Non ne hanno più parlato e Luca sa che lei ha fatto del suo meglio per dimenticarlo. E così anche lui.
Da quel giorno, si rende conto Luca, la sua vita è immobile.
La vecchietta si volta e lo guarda. A che serve ripensarci? Adesso sua madre non sa nemmeno chi è lui: forse, pensa Luca, ha senso che vivano entrambi una vita che cancellano.
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Storia di un amore squallido
RomanceContenuti violenti e sessualmente espliciti Roma, 1999 Luca è un uomo triste. Fa l'operaio e vive in un monolocale in periferia da solo, determinato a nascondere a tutti la propria omosessualità, spaventato dai pregiudizi delle persone. La sua unic...