Capitolo 17

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Due giorni dopo.
Fissai l'ultima ciocca di capelli con una forcina. Stentai a riconoscere la mia immagine riflessa allo specchio. Ero pallida come un lenzuolo, gli occhi circondati da aloni scuri. Era uno spettro, quello che mi stava fissando: grigio come il cielo invernale e altrettanto desolato.

«Nell?»
Era mia madre, che mi chiamava con voce dolce, esitante. Mi prese delicatamente per un braccio. Non mi ritrassi. «Dobbiamo andare, tesoro.»
Chiusi gli occhi di fronte all'abisso che si era spalancato davanti a me. Non provavo nulla.
Non avevo lacrime.
Ero svuotata,
perché il vuoto era meglio dell'agonia.
Annuii e le passai accanto, ignorando la fitta di dolore quando il gesso andò a sbattere contro lo stipite.
Mio padre teneva la porta aperta e mi osservava con attenzione, come se potessi esplodere o rompermi in mille pezzi.
Entrambe erano ipotesi plausibili.
Ma improbabili, perché in entrambi i casi, bisognava almeno sentire qualcosa.
Mentre io non sentivo niente.
Niente di niente.
Ed era la cosa migliore.
Scesi i gradini e mi incamminai lungo il vialetto asfaltato fino al massiccio fuoristrada.
Salii sul sedile posteriore, mi allacciai la cintura e attesi in silenzio.
Mia madre si fermò sull'ingresso, di fronte a mio padre, poi si scambiarono un'occhiata preoccupata.
Partimmo.
Papà mi guardò dallo specchietto retrovisore. «Vuoi sentire un po' di musica?»
Scossi la testa ma non riuscii a parlare.
La mamma si voltò verso di me, per dirmi qualcosa.
«No, Rachel», disse lui toccandole un braccio. «Lasciala stare.»

Gli lanciai uno sguardo di gratitudine con occhi spenti.
Pioveva. Gocce lente e fitte, nell'aria immobile, ancora mite. Niente di simile al temporale che mi aveva portato via Kyle.
Nubi grigie e pesanti incombevano su di noi come un soffitto rotto.
Asfalto bagnato, erba luccicante e pozzanghere sui marciapiedi.
Strinsi tra le mani un foglio piegato e sgualcito. Il biglietto che Kyle mi aveva scritto per San Valentino. Ormai lo avevo imparato a memoria. Lo avevo letto e riletto fino a consumarlo.
Entrammo in una stanza piccola, stipata di gente. Mi fermai accanto alla bara, senza guardare dentro. Passai accanto a un bel collage di fotografie di Kyle, di noi due insieme. Osservai quella versione felice di me stessa, quella versione felice e viva di Kyle, e mi sembrarono due perfetti sconosciuti.
Frasi di rito, condoglianze, parole come gusci vuoti.
Mani che stringevano la mia, labbra che mi sfioravano la guancia.
Amici in lacrime.
Cugini.
Becca, che mi abbracciava.
Jason, ammutolito, distante, che mi faceva dono del suo silenzio, la cosa migliore che potesse offrirmi.
Poi, i signori Calloway, davanti a me. C'erano sempre stati, ma non me ne ero accorta. Non avevo la forza di sostenerne lo sguardo.
Ma adesso erano lì, che si tenevano per mano, due paia di occhi nocciola identici a quelli di Kyle che mi inchiodavano, mi scrutavano.
Non avevo raccontato molto, di ciò che era successo.
Il temporale, l'albero che cadeva. Kyle, che mi aveva salvato la vita.
Non avevo detto della proposta di matrimonio, dell'anello, che un infermiere mi aveva infilato al dito sbagliato. Non avevo detto che stavamo litigando.
Che avrei dovuto esserci io, sotto quell'albero.
Se solo... Dio, se solo mi fossi comportata diversamente, il loro figlio sarebbe ancora vivo. Non avevo detto che la sua morte era colpa mia.
Se avessi accettato, sarebbe ancora vivo. Saremmo saliti in camera da letto. Avremmo fatto l'amore. L'albero si sarebbe schiantato sulla casa, ma ci saremmo salvati.
Li osservai, cercando le parole
. «Mi dispiace così tanto.» Non riuscii ad aggiungere altro; solo quelle flebili parole in frantumi, che cadevano come schegge dalla mia lingua.

«Oh, Nell... anche a me.» La signora Calloway mi abbracciò e scoppiò a piangere sulla mia spalla.
Mi irrigidii, incapace di reggere quel contatto fisico. Inspirai a fondo ed espirai lentamente, lasciando uscire l'aria dalla bocca tra i suoi lunghi capelli neri, tremante e tesa come una corda di violino. Non potevo permettermi di provare qualcosa.
Se lo avessi fatto, sarei crollata.
Non aveva capito che la stavo implorando di perdonarmi per avere ucciso suo figlio.
Ma quelle quattro parole furono tutto ciò che fui in grado di riesumare dentro di me.
Poi finalmente il marito la tirò a sé, cercando di placarne il pianto convulso.
Le persone andavano e venivano, pronunciando parole senza senso. I volti mi scorrevano davanti in un'unica macchia sfuocata. Annuii, mormorai qualcosa. Perché si rendessero conto che non ero catatonica, ma viva.
Eppure non lo ero. Respiravo. I circuiti scattavano, il sangue scorreva nelle vene. Ma ero morta, insieme a Kyle.
Papà mi venne vicino e mi strinse in un abbraccio. «Sei pronta, Nell?»
Pronta per cosa? Lo guardai, perplessa.
«Per il servizio funebre. Dobbiamo chiudere la bara e... seppellirlo.»
Annuii. Mi accompagnò verso una sedia e mi accomodai. Il signor Calloway si alzò in piedi, il feretro alle sue spalle, e parlò. Udivo le parole, ma non avevano alcun significato. Stava raccontando di Kyle, di quanto fosse un ragazzo eccezionale e meraviglioso, dei suoi progetti, tragicamente interrotti. Interrotti. Corretto; ma non rendeva la realtà delle cose. Kyle non c'era più.
La signora Calloway non riuscì a proferire nemmeno una parola. Jason disse che Kyle era un amico vero.
Poi toccò a me. Sentivo gli occhi di tutti puntati addosso. Raggiunsi la pedana, dove c'erano un piccolo palco e un microfono. Mi ci aggrappai con le unghie, che mia madre mi aveva dipinto di viola scuro.
In quel momento mi resi conto di essere cambiata. La vecchia Nell avrebbe saputo cosa dire, avrebbe trovato parole educate e

Sei sempre stata mia Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora