Capitolo 25

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Un mese dopo

La vita ha ripreso a scorrere in modo più o meno normale, a parte il fatto che Colton mi viene a trovare e usciamo insieme. Il nostro rapporto si è assestato a un livello platonico, anche se continuo a provare la stessa attrazione nei suoi confronti e lo sorprendo spesso a guardarmi. Di tanto in tanto ci scambiamo qualche bacio, ma è come se avessimo tacitamente sospeso le manifestazioni d'affetto. Non so bene perché. Non so se mi piace. Lo desidero. Ho bisogno di lui.
Vado a lezione, corro, mi guadagno da vivere facendo la cameriera e suono la mia chitarra. E vedo Colton, ma non mi basta. Soprattutto, cerco di non pensare troppo alla mia domanda di iscrizione alla facoltà di arti dello spettacolo. La lettera di risposta dovrebbe arrivare da un giorno all'altro. Dopo l'incontro con Colton nel parco e con tutto quello che è successo in seguito, me ne ero completamente dimenticata.
Finalmente la lettera arriva; me la porta Colton, insieme al resto della posta. Sono seduta sul bancone della mia cucina e mi sto esercitando alla chitarra quando lui bussa ed entra. Mi porge una pila di buste, che passo in rassegna. La lettera della New York University è in fondo al mucchio, ovviamente. Quando la vedo, il cuore comincia a battere all'impazzata e butto per terra il resto della corrispondenza.
«Cosa c'è?» mi chiede, sorpreso.
«Ho fatto domanda di iscrizione alla facoltà di arti dello spettacolo. In questa lettera c'è scritto se mi hanno preso oppure no.» Apro la
busta e tiro fuori il foglio. A quel punto, il coraggio mi abbandona e ho una crisi isterica, mi agito e strillo come una ragazzina. «Non ce la faccio! Leggila tu», lo supplico porgendogli il foglio.
«No, è tua. Leggila tu.» Ha un'espressione strana, che non riesco a decifrare.
«Sono troppo nervosa. Ti prego.»
«Dovresti leggerla tu, bambolina. Se lo faccio io non è la stessa cosa.»
«Ma anche tu non sai se mi hanno accettato», insisto, irritata dal suo rifiuto. «Per favore. Per favore, me la leggi?» Non dovrei tirare la corda, lo so. Ha i lineamenti contratti e capisco che ho toccato un tasto dolente. Un nervo scoperto. Ma ormai sono troppo curiosa e non ho intenzione di cedere.
«No, Nell. È la tua lettera di accettazione, non la mia.» Si gira e infila una mano in tasca, giocherellando con qualche spicciolo. Guarda fuori della finestra con le spalle curve, la mandibola serrata.
«Avanti, Colton. Che problema c'è? Voglio condividere questo momento con te.»
Si volta verso di me, gli occhi pieni di dolore e di rabbia. «Vuoi sapere che problema c'è? Non so leggere! Adesso sei contenta? Ecco qual è il problema. Non so leggere.» Torna a fissare la finestra con le mani lungo i fianchi, chiuse a pugno.
Lo osservo sbalordita. «C... cosa? Non sai leggere? Cioè... per niente? Come... com'è possibile?» Mi avvicino e gli poso timidamente una mano su una spalla.
È dura come il granito. Mi parla e la voce è così bassa che faccio fatica a sentire.
«Sono dislessico. In modo piuttosto grave. Posso leggere, ma male, e per arrivare alla fine delle frasi più semplici ci metto un'eternità. Se mi chiudo in una stanza senza rumori e senza distrazioni e mi concentro intensamente, posso arrivare in fondo a un articolo di giornale, ma scritto con un linguaggio semplice.»
Ora mi si chiariscono parecchie cose. «È uno dei motivi per cui sei a New York, vero? L'origine delle incomprensioni che hai con i tuoi genitori.»
«Sì. È sempre stato un problema. Quando ero piccolo, non si sapeva molto su questo disturbo. Oggi esistono un sacco di tecniche per aiutare i bambini che ne sono colpiti», mi spiega. «Ci sono scuole apposite, laboratori e insegnanti di sostegno e un sacco di altra roba. Tutti pensavano che fossi stupido e basta. Anche i miei genitori. Non sapevano cosa cercare e io non sapevo spiegare le mie difficoltà.»
«Io so soltanto che chi è dislessico fa fatica a leggere.» Gli massaggio il muscolo in tensione della spalla.
Lui annuisce e finalmente si gira verso di me. Mi faccio coraggio e decido di abbattere le barriere che ci separano. Mi avvicino, lo abbraccio, faccio scivolare le mani sulle sue costole e sulla sua schiena. Appoggio il mento contro il suo torace e alzo lo sguardo. Sento il suo odore, il suo calore e la sua forza, e un'ondata di desiderio mi travolge.
«Il concetto è quello, sì, ma non solo», dice. «È come se... niente di ciò che è scritto avesse senso. Lettere, numeri, frasi, equazioni matematiche... qualsiasi cosa. Posso risolvere migliaia di problemi complicati, a mente; ho un vocabolario ricco, conosco le regole della grammatica, ma mi devi spiegare tutto a voce. Se mi dici una parola e cosa significa, non la dimentico più. Puoi spiegarmi un qualunque concetto matematico e io lo afferro senza difficoltà. Ma se mi chiedi di scriverlo: niente. Le cose si affastellano alla rinfusa, in un'accozzaglia insensata. Guardo questo foglio», indica la mia lettera, «e riconosco le lettere. Conosco l'alfabeto, tecnicamente sono in grado di leggere, posso sillabare. Ma se mi concentro sul suo contenuto, per me si tratta soltanto di un mucchio di caratteri. Devo concentrarmi su una lettera alla volta, una parola alla volta, pronunciarla ad alta voce, capirla. Poi devo tornare indietro e comporre la frase e il paragrafo e la pagina, e questo di solito implica che devo ricominciare tutto da capo.»
«E tutte le canzoni che scrivi, le parole..?»
«Tutto qui dentro.» Si batte un dito sulla tempia. «I testi, la musica: ogni cosa.»
Sono sbalordita. «Non hai niente di scritto?»
Lui ride, ma è una risata amara. «No, tesoro. Non solo non riesco a leggere. Non so nemmeno scrivere. È altrettanto difficile. Anzi, ancora di più, perché quando provo a scrivere quello che ho in testa, mi vengono in mente mille altre cose, un ammasso di roba senza significato.»
«Quindi hai imparato tutto a memoria?»
«Sono fatto così. Ho una memoria eccezionale e, per quanto riguarda la musica, un orecchio perfetto. Sento un brano e riesco a suonarlo. Mi basta ascoltarlo una volta e ho già tutto in testa: le note, gli accordi. Stesso discorso per la meccanica. La intuisco al volo. Certo, ho dovuto imparare come fare, proprio come ho dovuto imparare a suonare la chitarra e a usare la mia voce, ma mi viene naturale.»
«E i tuoi genitori non hanno capito quale fosse il problema?» gli chiedo.
Lui fa un sospiro sofferto. «Cavoli, detesto parlare di queste cose.» Mi accarezza i capelli distrattamente. «No, niente. Ero il loro primo figlio. Hanno fatto degli errori. Ma la cosa non rende meno schifoso tutto quello che è successo.»
«Cosa è successo?»
Mi fissa e sembra trarre forza da qualcosa che intravede nei miei occhi. «Te l'ho detto, non si spiegavano cosa non andasse, in me. Ovviamente non ero ritardato. Parlavo bene, interagivo con gli altri e mi allacciavo le scarpe e riconoscevo i colori e le forme, ma quando è stato il momento di cominciare a leggere e scrivere, è diventato impossibile. E la cosa era motivo di frustrazione. All'epoca mio padre stava facendo carriera e nutriva grandi ambizioni. E aveva progetti per me, il primogenito. Secondo lui avrei dovuto seguire le orme sue, diventare un dottore o un avvocato o qualcuno di altrettanto importante. Aveva deciso che quello sarebbe stato il mio destino, e non c'era niente che potesse fargli cambiare idea. E quindi le cose sono diventate sempre più difficili, perché nonostante i miei sforzi, non riuscivo a leggere né a scrivere. Non sono mai andato oltre il livello di un bambino di prima elementare, più o meno. Dovevo lavorare il triplo degli altri, per fare il compito e superare gli esami. Ce la facevo sempre per il rotto della cuffia. Papà pensava che fossi svogliato e basta. Mi diceva di impegnarmi di più, di non arrendermi di fronte agli ostacoli. Mi faceva pressione ogni santo giorno e non capiva quanto ci dessi dentro, anche solo per stare al passo con gli altri. Sono arrivato alle superiori per miracolo, passando tutte le serate a studiare e a fare i compiti. Perché la scuola si basa quasi esclusivamente sulle risposte scritte e sulla lettura dei testi. Posso farlo, ma è così... così difficile da risultare quasi impossibile, senza contare che ci impiego il triplo del tempo. Ero solo un bambino, cazzo. Volevo giocare a football e stare con i miei amici, andare in giro a divertirmi. Ma non potevo, perché ero sempre in quella maledetta stanza a cercare di leggere dieci misere pagine del manuale di storia o di qualche romanzo.»
Appoggio la fronte al suo petto, con il cuore straziato. «Mi dispiace, Colton.»
«Già, un bello schifo. E papà non capiva. Non è cattivo. Anzi, è fantastico, davvero. Quando la scuola non era ancora un problema, era un padre meraviglioso. Ma crescendo quella cosa ha incominciato a oscurare il resto. Da ragazzo, ero un grumo di rabbia. Sempre. Odiavo la scuola, odiavo gli insegnanti e il preside e i miei genitori. E il fatto che quando ero adolescente Kyle fosse già un ragazzino modello, educato, sportivo, pieno di amici e di fascino, non mi ha aiutato. Mentre io dovevo studiare sei ore al giorno per strappare una sufficienza. E la cosa peggiore era che capivo. Sapevo che non ero stupido. Comprendevo il contenuto delle lezioni. Mi bastava ascoltare ed ero in grado di ripetere le parole dell'insegnante, dalla prima all'ultima. Se mi avessero permesso di sostenere degli esami orali, sarei stato un bravo studente. Ma allora questa possibilità non era contemplata. Invece con i nuovi metodi sono almeno riuscito a prendere la patente.» Ho un fremito, quando mi sfiora la mandibola con un dito, per poi scendere dietro l'orecchio, lungo il collo e sulla clavicola. «A scuola mi sono cacciato nei guai un sacco di volte perché ero frustrato e incazzato. E gli altri ragazzi mi prendevano in giro, ovviamente, perché arrancavo, me la cavavo a malapena, così c'ero sempre, quando si trattava di fare a pugni.»
«I ragazzi sono crudeli.»
«Ci puoi giurare», conferma con amarezza. «Anche se non mi importava molto, a dire la verità. Erano i problemi con i miei genitori a dilaniarmi. Pensavano che non ci mettessi abbastanza impegno, che stessi esagerando perché non volevo più andare a scuola. E si aspettavano che mi attenessi alle regole, che seguissi le loro orme. E questo includeva il college. Io volevo solo lavorare tra i motori, riparare automobili. Suonare la chitarra. Ma non era accettabile, per loro.»
«Quindi, quando ti sei diplomato...»
«Mio padre voleva a tutti i costi che mi iscrivessi a qualche università prestigiosa.» Scoppia a ridere, una risata mesta, piena di frustrazione e rabbia antica. «Il college? Leggevo a malapena. Odiavo la scuola. Non ne potevo più. Glielo dissi, ma lui non mi ascoltò neppure. Mi rispose che avrebbe esercitato la sua influenza, in modo che i miei brutti voti non compromettessero l'ammissione al college. Alla fine, decisi che dovevo farglielo capire, con le buone o con le cattive. Ricordo quel giorno come se fosse ieri. Una magnifica giornata di giugno, mite e soleggiata. Mi ero diplomato da un paio di mesi e trascorrevo il mio tempo in garage, alla mia Camaro. Lui voleva che mi iscrivessi a Harvard, alla Columbia o alla Brown, ma io non ne avevo alcuna intenzione. Era un litigio continuo. Finalmente arrivò la resa dei conti, sul pontile dietro casa. Gli spiattellai in faccia che non sarei mai andato al college. Mai. E sai cosa mi rispose? 'Allora non ti daremo più un soldo.' Se avessi proseguito gli studi mi avrebbe dato una mano con la retta e con l'affitto. Altrimenti, non avrei più visto un centesimo.» Fa una pausa e vedo che il peggio deve ancora venire. «Le cose sono degenerate. Abbiamo litigato... di brutto. Me ne ha dette di tutti i colori, mi ha riempito di insulti, mi ha detto che ero soltanto uno stupido e un lavativo. Era arrabbiato, ma è una ferita che non si è ancora rimarginata. Volevo soltanto la sua approvazione, che si rendesse conto che sapevo fare altre cose, che ero intelligente, a modo mio. Ma non ne era in grado. E abbiamo alzato le mani. Lui mi ha colpito e io ho reagito. Sono fuggito. Ho lasciato tutto, anche la Camaro, che avevo restaurato con tanti sacrifici. Non ho portato niente con me. Soltanto lo zaino e dei vestiti e i miei risparmi. Ho comprato un biglietto dell'autobus per New York.
Non mi sono mai voltato indietro. Il biglietto dell'autobus mi è costato quasi tutto quello che avevo, così quando sono arrivato in città ero al verde, un diciassettenne semianalfabeta con problemi a gestire la rabbia e nessun piano, senza soldi e senza amici, senz'automobile, né un tetto sopra la testa, niente. Solo uno zaino e un cambio di vestiti.»
Il dolore che trapela dal suo racconto mi spezza il cuore. Provo a immaginarlo: un ragazzino spaventato, completamente solo, costretto a fare a pugni per sopravvivere. Troppo orgoglioso per tornare a casa, anche se avrebbe potuto. Affamato, al freddo, su una strada.
«Colton... mi dispiace che tu sia stato costretto a vivere tutto questo.» Ho la voce incrinata.
Mi solleva il mento. «Ehi. Non piangere. Non per me. Sono ancora qui, giusto?»
«Sì, ma non meritavi di soffrire così.»
Lui si limita ad alzare le spalle, rassegnato, e gli lancio un'occhiata severa. «No, non minimizzare. Hai raggiunto un sacco di obiettivi. Sei sopravvissuto. Ti sei tolto dalla strada. Ti sei inventato un lavoro dal niente. E tutto da solo, nonostante le tue difficoltà di apprendimento. Penso che sia incredibile. Penso che tu sia incredibile.»
Lui è chiaramente in imbarazzo. Io gli prendo il viso, assaporando la sensazione della sua barba ruvida sotto le mani. «Sei intelligente, Colton. Davvero. E pieno di talento. Tu mi lasci senza fiato.»
«Mi stai mettendo a disagio, Nelly.» Mi stringe a sé. «Ma grazie per avermelo detto. Significa più di quanto immagini. Ma torniamo a noi. Cosa c'è scritto nella lettera? Sono stufo di parlare di queste cose.»
Alzo il foglio e lo leggo. «Mi hanno accettato.»
«Non avevo alcun dubbio. Sono orgoglioso di te, bambolina.» Sorrido, contro al suo petto, respirando il suo profumo.
Provo a farmi coraggio. Non so se ce la faccio. Mi aggrappo alla chitarra e cerco di non venire presa dal panico.
«Sei pronta?» mi chiede Colton, vicino a me. Il suo ginocchio contro il mio.
«Sì. Prontissima. Posso farcela.»
«Certo che puoi. Seguimi e pensa soltanto a cantare, intesi? Suona come quando ci siamo esercitati e lascia che tutti sentano la tua voce celestiale, okay?»
Annuisco e sgranchisco le dita. Non ho mai suonato in pubblico. Cioè, ho strimpellato un paio di volte per la strada, da sola e insieme a Colton, ma questa volta è diverso. È... è terrificante. Siamo sul palco di un locale e ci sarà un centinaio di persone che ci guardano, in attesa che cominciamo. Conoscono Colton, sono qui per lui, ma sono anche curiosi di sapere chi sono. Insomma, avverto una leggera pressione.
«Ciao a tutti. Io sono Colt e questa è Nell. Questa sera eseguiremo qualche pezzo per voi.» Partono gli applausi, qualcuno fischia. Lui mi guarda e poi si rivolge al pubblico. «Sì, lo so, è uno schianto, ragazzi, ma tenete a posto le mani, intesi? Per cominciare credo che suoneremo qualcosa degli Avett Brothers. Questa è I Would Be Sad.»
Attacca con una sequenza complessa di accordi che imita il banjo della versione originale. Io entro subito dopo con un giro più semplice, in attesa di iniziare a cantare. È una base ritmica semplice e l'ho provata così tante volte che la eseguo senza pensarci. Poi canto. E lascio tutti senza fiato. La mia voce è una controparte perfetta a quella di Colton, i miei toni acuti e cristallini si intrecciano al suo sussurro roco e capisco che li abbiamo sedotti.
Aggiusto il ritmo, mentre passiamo al brano successivo, che introduce Colton. «Qualcuno conosce City and Colour?» Parte un applauso fragoroso e lui sorride. «Bene! Allora spero che vi piaccia il prossimo pezzo, si intitola Hello, I'm in Delaware.»
Strimpello mentre Colton parte deciso con l'introduzione, ma dentro non sto nella pelle per l'entusiasmo. Ripenso a poco prima, quando ha detto a tutti di tenere le mani a posto, perché sono sua. Mi piace. E ha aggiunto che sono uno schianto. Un brivido mi corre lungo la schiena.
Mi faccio trasportare da City and Colour, perché Dallas Green è incredibile. Mi lascio andare e canto, senza risparmiarmi. Lascio che le parole mi attraversino e mi travolgano.
Non sono più nervosa e sento soltanto la musica che mi scorre dentro, la bellezza della canzone e l'euforia di sapere che sto dando il massimo.
Quella successiva è tutta di Colton. L'ho ascoltata mentre la provava, quindi non vedo l'ora di sentirla dal vivo. Lui accorda la chitarra, e intanto presenta il brano.
«Bene, adesso eseguirò un pezzo da solo. Probabilmente l'avete già sentito, ma non in questa versione. Si tratta di 99 Problems del grande Jay-Z. L'arrangiamento, però, è di un musicista che si chiama Hugo. Vorrei prendermene il merito, perché è un maledetto genio. Quindi. Spero che vi piaccia.»
Di nuovo applausi, che si spengono quando attacca con una sequenza di accordi discontinui e sincopati. Sono felice e piena d'orgoglio quando comincia a cantare. La prima volta che l'avevo ascoltato suonare il pezzo, ero rimasta disorientata, perché era una versione davvero originale, ma poi l'avevo riconosciuta ed ero rimasta a bocca aperta. Ha ragione a dire che si tratta di un arrangiamento brillante, lo è sul serio. Dalla prima nota all'ultima.
Poi tocca a me.
«Siete fantastici. Anche le altre cose di Hugo sono eccezionali, ma questa è la mia preferita. Adesso Nell vi canterà qualcosa.»
Colton ha insistito affinché presentassi il mio brano, così avvicino il microfono e strimpello i primi accordi per riscaldarmi. «Ciao a tutti. Non ho mai cantato da sola, quindi siate clementi, vi prego. Eseguirò It's Time degli Imagine Dragons.» Mi volto verso di lui. «Te la dedico, perché questo pezzo mi parla di te.»
Mentre facevo jogging e ascoltavo la mia playlist, cercando di scegliere qualche canzone per stasera, ero incappata in questo brano. È meraviglioso, con suggestioni pop anni Ottanta, ed ero sicura che sarebbe stato interessante interpretarla in chiave folk. Ma era stato il testo a colpirmi, con la sua enfasi sul non cambiare, sul restare chi sei. Colton ne aveva passate tante ed era rimasto fedele a se stesso, rifiutando di arrendersi a causa delle aspettative altrui.
Io ne sapevo qualcosa. Avevo optato per scuole e indirizzi professionali in base a quello che gli altri – i miei genitori – volevano da me. Dopo la morte di Kyle, non ero più riuscita a scegliere, a pensare, non avevo più stimoli. Avevo lavorato per mio padre ed ero andata al college perché era la cosa più semplice. Mio padre si era sempre aspettato che mi laureassi in economia e commercio e lavorassi per lui. Non avevo mai preso in considerazione strade diverse. Non avevo mai riflettuto sulle mie inclinazioni, sui miei desideri: assecondavo i loro progetti senza pormi domande.
Poi Kyle era morto e dopo alcuni mesi mi ero accorta che avevo bisogno di una valvola di sfogo. Qualcosa che mi distogliesse dal senso di colpa e dal dolore. Avevo scelto la chitarra quasi per caso. Avevo visto un volantino che pubblicizzava lezioni di chitarra attaccato a un palo della luce. L'insegnante era un tizio di mezz'età con la pancia e i capelli grigi. Era geniale. Paziente e comprensivo. Soprattutto, aveva capito che avevo bisogno di un paio d'ore di evasione, lontano da tutto. Non mi aveva mai fatto domande, limitandosi a farmi studiare, a spronarmi, obbligandomi a concentrarmi sugli esercizi e sui giri armonici. Mi stava con il fiato sul collo, se battevo la fiacca.
Cantare mi era parsa una conseguenza naturale. Mi era sempre piaciuto, ero cresciuta ascoltando la voce di mia madre. Però non l'avevo mai preso in considerazione seriamente. Canticchiavo in automobile o sotto la doccia. Poi avevo iniziato a prendere lezioni di chitarra e la musica era diventata un'ossessione, un modo per provare qualcosa, oltre al dolore. Imparato il testo di un brano lo cantavo sottovoce. Alla fine mi ero resa conto che preferivo cantare piuttosto che suonare la chitarra e allora era stata la musica in sé a diventare una valvola di sfogo. Passavo ore e ore a suonare e cantare, seduta sul pontile, guardando il sole che tramontava e le stelle che spuntavano nel cielo. Suonavo e mi rifiutavo di pensare a Kyle, di sentire la sua mancanza e di piangere. Suonavo finché le dita non sanguinavano, cantavo finché non avevo più voce in gola.
Adesso la musica è un filo che mi unisce a Colton. Le canzoni che interpretiamo sono frasi. Compongono una conversazione in note musicali.
Tutto il resto scompare.
C'è soltanto il pubblico, rapito, e Colton, che mi mangia con gli occhi. Il pezzo finisce e l'ultima nota vibra nell'aria, le mani tremano, il cuore martella nel petto. Cala un silenzio assordante, vedo lo sguardo del pubblico su di me, i volti pietrificati. Sto per farmela sotto, poi esplode un boato fragoroso e la gente applaude, strilla, fischia, e mi rendo conto che il loro era un silenzio stupito.
Non male, tutto sommato.
Quando il pubblico si calma, Colton porta il microfono alle labbra e mi parla. «Per la miseria, Nell. È stato incredibile. Davvero.»
Ha la voce incrinata, gli occhi lucidi per l'emozione. La nasconde bene, ma ormai la riconosco, è così palpabile che la respiro nell'aria.
Aspettiamo che la tensione si stemperi. Sappiamo entrambi qual è la prossima canzone e siamo nervosi.
«Il prossimo pezzo non l'ho mai eseguito in pubblico», spiega Colton stringendo una corda della chitarra. «È... molto personale, e l'ho scritto moltissimo tempo fa. Nell mi ha tampinato – volevo dire incoraggiato – affinché lo cantassi questa sera e alla fine mi sono arreso. Quindi, eccolo. Non gli ho mai dato un titolo, ma credo che potrebbe essere Un'ora in più.»
È difficile, per lui, lo vedo. La melodia è lenta e pesante, morbida e malinconica come una ballata. Poi inizia a cantare e come per magia nel locale cala un silenzio assoluto. Sono tutti immobili, senza fiato. L'abbiamo provata insieme. Mi aveva detto che l'avrebbe suonata a patto che lo avessi accompagnato, come sto facendo. Eseguo l'accompagnamento con discrezione, in modo che l'attenzione resti concentrata su di lui. Ed è così. È il suo momento. Vedo gli sguardi del pubblico, la loro commozione. Le lacrime. È una canzone che significa tanto per Colton; si intuisce dalla passione che ci mette. La sta cantando a se stesso. È tornato a essere quell'anima perduta, sulle strade di New York. Ho una stretta al cuore. Voglio abbracciarlo, baciarlo, dirgli che non è solo.
Le ultime note si levano nell'aria e poi il pubblico va in delirio.
Facciamo un paio di brani famosi che mi ha insegnato Colton, poi è la volta del pezzo finale della serata, Barton Hollow. Sono euforica, entusiasta. Mi sono iscritta alla facoltà di arti dello spettacolo quasi per capriccio, come gesto di ribellione, per far capire ai miei genitori che avrei fatto di testa mia. Non mi ero mai esibita in pubblico. E adesso... credo che non potrei più farne a meno.
Colton incassa il compenso e usciamo dal locale. Non riesco a decifrare il suo sguardo, ma c'è tensione nei suoi movimenti. Sono nervosa, mentre viaggiamo l'uno accanto all'altra nella metro, con le chitarre a tracolla, aggrappati al corrimano. È silenzioso e non so se è arrabbiato, sconvolto per qualcosa, oppure carico per l'esibizione. Non sono in grado di decifrarlo e la cosa mi mette a disagio. Gli prendo la mano e intreccio le dita alle sue. Lui mi guarda, poi i suoi occhi si posano sulle nostre mani e poi di nuovo su di me. La sua espressione si ammorbidisce. «Scusa, suonare quella canzone mi ha scombussolato. Sono un po' sovrappensiero. Non sono molto di compagnia, temo.»
«Lo so, Colton. Sono orgogliosa di te. Sei stato fantastico. La gente aveva le lacrime.»
Lascia la mia mano e mi attira a sé. Mi stringe un fianco e all'improvviso il vagone della metro scompare, sostituito dalla consistenza folgorante del suo corpo, del suo calore, dei suoi muscoli. La sua mano è una fiamma che mi brucia i vestiti, finché non sento la sua pelle nuda sulla mia. Ne ho bisogno. Ho bisogno di carne e sangue. Abbiamo indugiato troppo a lungo e questi assaggi non mi bastano più. Lo voglio. Non so perché mi ha tenuto a distanza, ma non ne posso più. L'ho assecondato, raffreddando i miei baci. Ultimamente ci scambiamo effusioni quasi innocenti, carezze leggere che solo di rado si trasformano in qualcosa di urgente e profondo.
Adesso, mentre sono ancora frastornata per l'esibizione, riesco a pensare soltanto a lui. E al mio desiderio per lui. Le sue dita sui miei fianchi, i suoi occhi che mi cercano, bagliori azzurri che mi tentano. Lo so che prova la stessa cosa.
Mi mordo il labbro, provocandolo. Lui socchiude gli occhi e sospira. Le sue dita mi stringono fino quasi a farmi male e sono attraversata da un brivido.
«Ti fermi da me», dice.
È un ordine, non una domanda.
Io annuisco, senza distogliere lo sguardo. «Mi fermo da te.»
Mi avvicino e bisbiglio al suo orecchio: «E niente ripensamenti, stasera».
«Sicura?» La sua voce è un tuono che mi esplode nel petto.
«Sicurissima.» Forse dovrei essere più chiara. «Ti prego», aggiungo.
Lui ride, ma non è divertito. È la risata di un predatore, carica di promesse. «Bambolina, non c'è bisogno di supplicarmi.»
Arrossisco. «Invece sì. Sto aspettando da troppo tempo. Ti voglio.»
Nei suoi occhi c'è una luce selvaggia, sono così azzurri da togliermi il respiro. «Volevo darti tempo, non farti pressione. Pensavo che non fossi ancora pronta. E non lo ero nemmeno io, credo.»
«Capisco e lo apprezzo. Ma ti sto dicendo che non ne posso più di aspettare...»
Fa scivolare la mano verso il basso, appoggiandola sul mio fondoschiena. «Voglio solo che tu sia sicura. Nessuna domanda, nessuna esitazione. Voglio che sia perfetto.»
Poso la fronte sulla sua spalla, poi alzo il viso e lo guardo. «Sono pronta. Ho paura, è vero. Ma sono pronta.»
«Ti illudi di essere pronta. Ma ti sbagli di grosso.»
E oddio, la minaccia, la promessa nel suo tono è sufficiente perché stringa le gambe, nel tentativo di tenere a freno la mia eccitazione. Ho le pupille dilatate dal desiderio, il respiro affannato.
«Smetti di mordere quel labbro, o ti salto addosso qui, sul vagone», ringhia. Allento la morsa lentamente, stuzzicandolo con la mia sottomissione. «Cosa c'è di così sexy?» Sembra confuso dalla propria reazione.
Inarco la schiena e inspiro a fondo, premendo il seno contro di lui. Siamo su una carrozza della metro, ma le persone intorno a noi sono indifferenti e a me comunque non importa. Sono concentrata sul mio bisogno, su questa urgenza che mi consuma. Non ho più remore, né senso del pudore.
«Dacci un taglio, Nell.» Mi attira a sé. Sento la sua eccitazione che preme contro il mio inguine. «Non sfottermi. Sei sexy e ti voglio. Ecco cosa c'è.»
Io gli lancio un'occhiata innocente. «Non ti stavo sfottendo, Colton.» Mi avvicino al suo orecchio e mormoro: «Sono eccitata». Mi sento volgare e ridicola, ma è la verità e non riesco a frenarmi.
«Cazzo, Nell. Mi stai mettendo a dura prova. Di' un'altra parola e ti caccio la lingua in bocca davanti a tutti.»
Lo guardo di nuovo con un'espressione ingenua. «Non credo che mi lamenterò.» E mi mordo il labbro, giusto per tormentarlo.
Serra la mandibola e mi afferra il fondoschiena con entrambe le mani. Oddio, lo adoro.
Adoro le sue mani sul culo.
Ho una gonna nera attillata di cotone sottile e sento i calli delle sue mani che graffiano la stoffa. Assaporo la forza bruta della sua presa, il suo corpo muscoloso contro il mio. Poi la sua bocca è sulla mia e mi prende il labbro inferiore, in un bacio affamato e vorace. Mi insinua la lingua tra i denti, leccandomi e succhiandomi. Mi sfugge un gemito, poi sono travolta da un'ondata di desiderio. Ricambio il suo bacio, anche se «bacio» non è la parola esatta. Un bacio sono labbra che si sfiorano, lingue che guizzano. Questo è...
Questo è scopare con la bocca. È sesso. Primitivo e brutale e famelico.
«Andate in un albergo, per la miseria», sbotta una voce femminile alle nostre spalle e la sua lamentela è la prova che ci stiamo spingendo oltre. Gli abitanti di New York non si scompongono quasi mai. Quasi.
Il treno si ferma e Colton posa una mano sulla mia schiena e mi fa scendere. Saliamo le scale che ci riportano in superficie e mi cinge la vita con un braccio. Ci affrettiamo lungo la strada e raggiungiamo l'officina deserta. Dentro il garage, sono assalita dall'odore acre di grasso, sigarette e sudore. È un odore meraviglioso, che sa di casa ogni giorno di più. Un pensiero che mi spaventa e mi rende euforica al tempo stesso.
Fiuto la sua eccitazione, il sangue mi pompa nelle vene, pulsa nelle orecchie.
La salita verso l'appartamento sembra interminabile.
A momenti mi volto e gli salto addosso lì, sulle scale.
È un desiderio irrefrenabile.
È come una fame che mi consuma, un'urgenza che non sono più in grado di reprimere. Ho bisogno del suo corpo, delle sue mani, della sua bocca, delle sue labbra. Ho bisogno di affondare le dita tra i suoi capelli, di tracciare i contorni del suo fisico solido, di godere dei suoi contrasti: i muscoli d'acciaio e la pelle liscia come seta, le mani ruvide e callose e i capelli morbidi, le labbra calde e la sua virilità e le mani che frugano avide e mi esplorano.
Ho bisogno di lui. Adesso.
Sono eccitata, il mio inguine è un nodo di lussuria e dolorosa impazienza.
Poi varchiamo la soglia di casa, sento il clic definitivo del chiavistello e Colton mi prende tra le braccia e mi spinge contro la porta, bloccandomi con il suo corpo massiccio.
Finalmente.
Mi prende in braccio e gli accarezzo il viso ruvido, poi mi abbandono a un bacio febbrile. Il fantasma di Kyle è sempre con me e mi lacera l'anima, rinnovando la sofferenza e il senso di colpa. Lo ignoro, lascio che mi tormenti. Lascio che mi strappi il cuore dal petto.
Poi le mani di Colton scivolano lungo la mia schiena, accarezzandomi il fondoschiena, insinuandosi tra i miei capelli, e il fantasma scompare. Lui si ritrae e mi scruta con i suoi occhi azzurri e scintillanti, e vedo che i suoi fantasmi stanno cercando di portarmelo via.
Siamo entrambi angosciati dagli spettri del nostro passato, ma dobbiamo andare avanti e allontanare il senso di colpa.
E dobbiamo farlo ora.

Sei sempre stata mia Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora