Capitolo 29

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Mi ritrovo nella piccola cappella dell'ospedale, non per pregare, ma alla ricerca di silenzio, lontano dall'odore di disinfettante, dal tanfo della malattia e della morte, dallo suono delle suole di gomma sui pavimenti e dalle voci che rimbombano e dal bip delle apparecchiature. Lontano dalle facce come la mia, serie, tristi, preoccupate, terrorizzate.
Il vetro colorato è un riflesso viola e rosso e azzurro e giallo e raffigura un'immagine che non mi interessa riconoscere. La croce è enorme e vuota, di legno marrone, dozzinale.
Mio padre mi raggiunge, tenendo la mia prima chitarra in mano. Uno strumento anonimo, con la custodia malconcia e graffiata, con le corde di acciaio, che mi sono lasciato alle spalle insieme a tutto il resto. Non so perché l'ha portata, ma gliene sono grato.
Siamo soli.
Parla senza guardarmi negli occhi. «Ti devo un mucchio di scuse, Colt. Sei un brav'uomo.»
«Non sai chi sono, papà. Non lo hai mai saputo. Non sai cosa ho fatto in questi anni.»
«Hai ragione.
Ma sei qui, accanto a lei, perché l'ami. Ce l'hai fatta da solo, senza l'aiuto di nessuno.
Avremmo dovuto starti vicino, e invece no.
Quindi... ti chiedo scusa.»
Immagino quanto gli è costato dirlo, ma non è certo sufficiente.
Però è un inizio. «Grazie, papà. Vorrei che me lo avessi detto tanti anni fa, ma grazie.»
«Lo so che non ti ripaga per come ti abbiamo trattato quando eri piccolo, per averti trascurato e lasciato andare via da solo. Eri troppo giovane, ma io... io...»
«Eri troppo concentrato sulla tua carriera e sul tuo figlio modello.»
Mi passo una mano tra i capelli. «Lo capisco. Non voglio parlarne più. Ormai è acqua passata. Sono qui per Nell, non per guarire ferite vecchie di anni.»

Apro la custodia ed estraggo la chitarra.
Non è accordata.
All'interno c'è un piccolo scomparto e tiro fuori una confezione di corde.
Mi concentro sul mio strumento e sostituisco le corde.
Papà mi osserva, assorto nei suoi pensieri, o perso in chissà quale ricordo o rimpianto.
Sinceramente, non me ne frega niente.
Alla fine se ne va, senza aggiungere altro.
Poi comincio a suonare. La musica fluisce spontanea, come un
fiume.
Sono chino sulla chitarra, seduto su una panca in mezzo alla cappella, e fisso i miei scarponi Timberland graffiati, macchiati di olio.
Canto sottovoce e sono immerso nella composizione di un brano, trasportato dal flusso della musica, le note e le parole che bruciano, sulla pelle.
«Signor Calloway?» mi chiama una timida voce femminile dalla soglia. «La signorina Hawthorne si è svegliata. Ha chiesto di lei.»
Annuisco, ripongo la chitarra nella custodia e la porto con me, mentre seguo l'infermiera.
Quando entro nella stanza, Nell è intenta a tormentarsi le cicatrici con un dito, i denti piantati nel labbro inferiore.
Prendo la sedia di plastica e la metto accanto al letto, poi le sfioro le dita con la mia mano enorme. Le bacio il palmo, le nocche, una alla volta. Cerco di non scoppiare a piangere.
Lei mi guarda, e i suoi occhi grigio-verdi sono cerchiati di rosso, belli da togliere il fiato e disperati. «Colt... Colton... io...»
«Shh. Ti amo. Ti amerò sempre.»
Lei capisce che c'è qualcosa che non va.
«Anche tu non stai bene, vero?»
«No, non molto.»
Mi scruta con aria interrogativa, così sospiro e le racconto la storia.
«Ti ho raccontato di India, di come è morta.»
«Sì», risponde esitante, come se sapesse già come va a finire.
«Ero all'ospedale, perché nella sparatoria alcuni dei ragazzi erano rimasti feriti e volevo andare a trovarli.
Assicurarmi che stessero bene.
Non so come, ma un'infermiera mi conosceva, sapeva che stavo con India.
Probabilmente abitava nel suo stesso palazzo, non saprei.» Inspiro a fondo, per mantenere la calma, anche dopo tanti anni. «Mi ha detto che... Cristo, lei... mi ha detto che quando è morta, India era incinta.
Non ne avevo idea.
Non so neppure se lei ne fosse al corrente.
Non era incinta da molto, sei settimane, credo.
Comunque... sì.
Incinta.
Non sono nemmeno riuscito a... non ha mai avuto la possibilità di dirmelo.»
«Oddio, Colton. Mi dispiace tanto.»
«Già.» Non riesco a guardarla e mi concentro sulle mie unghie, sporche di grasso. «Capisco perché sei fuggita, Nell. Solo che... prometti che non lo farai mai più.
Devi promettermelo.
Specialmente per cose come queste. Lo so che sono un meccanico analfabeta, ma posso prendermi cura di te.
Posso amarti e se noi... se... mi prenderò cura di te, sempre.»
Nell scoppia a piangere.
«Colton, non è per quello che sono fuggita.
Sei molto più di un meccanico analfabeta.
Non sei un delinquente.
Non sei nessuna delle cose che credi di essere.
Sei molto di più.
Avevo paura.
Mi sono fatta prendere dal panico.» Cerca di respirare tra i singhiozzi. «Non dovevo. Mi dispiace. È colpa mia. Non dovevo andare via, non dovevo mettermi a correre, dovevo...»
Le prendo una mano e la stringo forte. «No, Nell. No.
Non ci provare. Non è colpa tua.»
In quell'istante entra un medico. «Non ho potuto fare a meno di sentire», esordisce. Ha una cinquantina d'anni, è indiano ed emana esperienza e comprensione. «Non è colpa tua, Nell. Sono cose che succedono e non possiamo individuarne la causa, né possiamo impedirle.» La guarda intensamente e prosegue in tono ancora più serio. «Non fare l'errore di ritenerti responsabile. Il fatto che tu stessi correndo non ha provocato l'aborto spontaneo. Non c'è una causa. È capitato e basta e non è colpa di nessuno.»
Lei fa cenno di sì, ma so che non gli darà ascolto.
Il dottore le dice di riposare e che la tratterranno in ospedale per la notte. Dopo che se ne è andato, mi alzo e la bacio dolcemente. «Ti supplico, non fartene una colpa, bambolina. Hai sentito il dottore. È successo e basta.»
«Lo so. Ci sto provando.»
Guarda la custodia della chitarra. «Suonami qualcosa, ti prego.»
«Cosa vuoi sentire? Qualcosa di allegro?» Tiro fuori la chitarra e la appoggio su un ginocchio.
«No... suonami qualcosa... quello che ti va. Un pezzo che ha un significato particolare, per te.»
Comincio con Rocketship di Guster, perché quella canzone ha sempre fatto vibrare qualcosa dentro di me. L'ho ascoltata all'infinito, senza mai stancarmi.
La suonerei sempre, come una ninna nanna rivolta a me stesso.
L'idea di un missile spaziale che mi porta via, verso qualcosa di nuovo... mi piace. Mi ci riconosco.
Mi accorgo che c'è della gente dietro di noi, ma non mi importa. Che ascoltino.
«Suona qualcos'altro. Quello che vuoi.»
«Ho composto una canzone, mentre dormivi. È una specie di addio.»
«Suonala. Ti prego.»
«Scoppieremo a piangere come bambini», le dico.
«Lo so. Suonala lo stesso.»
Annuisco ed eseguo i primi accordi. È una canzone semplice, una
ninna nanna. Sospiro, chiudo gli occhi e mi lascio andare.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Dec 18, 2019 ⏰

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