Capitolo 28

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Otto settimane dopo

NO.
No.
Maledizione, no. Non può essere. Impossibile.
No.
Non ora.
Premo la mano destra sulla bocca, nel disperato tentativo di soffocare il senso di panico.
Sono seduta sull'orlo della vasca e indosso soltanto una maglietta lunga fino alle ginocchia.
Tengo le gambe strette, i piedi tamburellano nervosi sul pavimento. Scuoto la testa, incredula, gli occhi annebbiati e pieni di lacrime.
Guardo lo stick di plastica bianca che tengo stretto tra indice e pollice. Dentro una minuscola finestrella campeggiano due lineette blu.
Non faccio i bagagli.
Prenoto il primo volo per Detroit, che parte fra tre ore.
Non ho molto tempo, ma devo farcela.
Prima di uscire, attacco un biglietto alla porta di casa, per Colt: un biglietto con tre parole e il test.
Durante il tragitto in taxi fino all'aeroporto la sua voce mi rimbomba nel cervello e non mi dà tregua: «L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno in questo momento è una gravidanza».
Emotivamente, sono di nuovo al punto di partenza: chiusa in me stessa, incapace di piangere.
Alla disperata ricerca di un po' di dolore, per anestetizzare la tensione e il panico e la consapevolezza che una gravidanza è l'ultima cosa che desidera.
Quando raggiungo l'aeroporto, ho il labbro gonfio a furia di tormentarlo con i denti.

Trattengo a stento un singhiozzo, ripensando a come lo facesse impazzire.

Colton POV

Due giorni dopo

Quando chiudo l'officina e prendo un taxi per andare a Tribeca da Nell, sono furioso e in preda all'ansia.
Sono due giorni che non si fa viva. Niente.
Non una telefonata, né un messaggio in segreteria.
Doveva venire da me dopo le lezioni, ma non è mai arrivata.
Il telefono mi rimanda alla segreteria. Il suo capo, in quella bettola in cui serve ai tavoli un paio di sere a settimana, dice che non si è mai presentata al lavoro.
Lancio una banconota al taxista senza aspettare il resto.
Devo contare fino a dieci, prima di trovare la calma necessaria ad aprire la porta con la chiave che mi ha dato.
Ce le siamo scambiate la settimana scorsa; pensavo che le cose stessero andando alla grande.
Faccio i gradini tre alla volta e a momenti travolgo una vecchietta. Attaccato alla porta con del nastro adesivo c'è un foglio piegato a metà. Merda, no.
Cazzo, no.
Che cosa sta succedendo?
Prendo il biglietto; è pesante, per essere un semplice foglio di carta. Dentro c'è una busta di plastica e, all'interno, un test di gravidanza.

Oh, merda, no.
Oh, merda, sì.

Positivo.
E di Nell nessuna traccia.
La cerco nel suo minuscolo
appartamento, come se potesse sbucare da un cassetto.
Soltanto quel test e tre parole frettolose.
Mi dispiace tanto.
È scappata.
Sono arrabbiato, sono in preda al panico.
Sono tante cose insieme, che si accavallano alla rinfusa nel cuore e nella mente, e non riesco a essere lucido.
All'improvviso sono su un aereo e non ricordo nemmeno di essere andato all'aeroporto o di aver comprato il biglietto.
Scaraventato all'improvviso in un posto brutto, orrendo.
Ricordi che riaffiorano, cose che non ho confidato a nessuno, nemmeno a Nell, nonostante le abbia rivelato i dettagli più squallidi e indecenti della mia vita... tranne quello.
Un paio di lunghe, interminabili ore dopo, atterro e sono su un'auto a noleggio e sfreccio verso nord sulla I-75.
Mi muovo come un automa.
Ho la testa vuota.
Non penso a niente.
I pensieri sono pericolosi.
Non provo niente.
Sono in grado soltanto di agire, fare.
Devo trovarla.
Devo, cazzo.
I chilometri scorrono veloci davanti ai miei occhi, i semafori
diventano verdi troppo lentamente e mi ostacolano nella mia corsa verso di lei.
Passo con il rosso più di una volta e sento clacson di automobilisti inferociti e vedo dita che si levano a insultarmi.
Poi sta calando il sole e sono quasi a casa dei miei, ma so che lei non c'è, perché dovrebbe? Inchiodo in mezzo alla strada, davanti alla villa dei genitori di Nell.
Lascio la portiera aperta, il motore acceso.
Mi invade un'angoscia irrazionale, un panico così profondo che non riesco a comprenderlo, ma non posso farci niente.
Posso solo lasciarmi travolgere, farmi sovrastare, che si impadronisca di me.
Irrompo in casa degli Hawthorne, spalancando la porta. Sento un bicchiere che si infrange e una voce femminile che lancia un grido.
«Colt! Cosa accidenti... cosa ci fai qui?» Rachel Hawthorne è appoggiata al lavello e ha una mano sul petto, gli occhi pieni di confusione e timore.
«Dov'è?»
«Chi? Cosa... cosa ci fai qui?»
«Dov'è... Nell.» Scandisco lentamente, in tono glaciale.
Lei avverte la minaccia nella mia voce e impallidisce, incomincia a
tremare e a indietreggiare.
«Colt... non so cosa... È uscita a correre. È andata a correre.»
«Dove va di solito?»
«Cosa vuoi sapere? Voi due...»
«Dove va, Rachel?» Sono a pochi centimetri da lei, la incenerisco con lo sguardo.
Dovrei arretrare, ma non posso.
Rachel è pallida come un lenzuolo. «La strada che segna il vecchio confine provinciale. Verso nord. Fa una curva ampia e poi... poi torna tagliando attraverso la proprietà di Farrell.»
Mi precipito fuori e corro, più veloce che posso.
Il terrore mi stringe lo stomaco e non riesco a spiegarmi il perché, non riesco a liberarmene.
Mi insegue, mi incalza.
È incinta e ha preferito fuggire, piuttosto che dirmelo, ma non si tratta solo di quello: è qualcosa di più cupo, una specie di premonizione, come se dovessi trovarla, prima che potesse accaderle qualcosa di molto, molto brutto.
I miei piedi calpestano il terreno, chilometro dopo chilometro.
Adesso è buio.
Sono spuntate le stelle e la luna, bassa e rotonda.
Mi sento bruciare; il cuore mi esplode nel petto e le tempie pulsano, mentre continuo a correre a più non posso, con le mani chiuse a pugno.
Tremo, sfiancato, sono quasi tre chilometri che non mi fermo, ma non posso fermarmi.
Non lo farò...
Non posso.
Un altro chilometro e mi accorgo che ho rallentato, ma mi
costringo ad andare avanti, perché devo trovarla.
Il terreno di Farrell è un'enorme distesa di erba alta e campi incolti
e filari di alberi che suddividono la proprietà in appezzamenti più piccoli. Se è caduta là in mezzo, potrei passarle accanto e non saperlo mai.
Poi la vedo.
Grazie al cielo, grazie.
È seduta, piegata in avanti, il viso tra le mani.
Sta piangendo.
Nemmeno quando mi ha raccontato tutto, liberandosi del dolore che aveva tenuto dentro di sé per tutti quegli anni, aveva pianto così.
È... Cristo, è il suono più atroce che abbia mai sentito.
Peggiore anche del rumore del proiettile esploso nel cranio di India, simile a quello di un guscio rotto.
Nell sembra disperata.
Mi siedo vicino a lei e le sfioro una spalla.
Non reagisce, non mi guarda.
La prendo tra le braccia e la sollevo e qualcosa di caldo e bagnato mi sporca le braccia.
Il terreno su cui era seduta sembra bagnato, alla luce fioca della luna. Lo spiazzo erboso è annerito da qualcosa di liquido e scuro.
Sangue.
Cazzo.
«Nell? Tesoro?»
«Non chiamarmi così!»
Un grido improvviso, feroce. Si divincola e cade, si allontana, ansima talmente forte che sembra sul punto di vomitare.
«Non c'è più... non c'è più, è morto.»
E subito capisco cos'è successo, ma non riesco nemmeno a formulare la parola, nella mia mente.
La stringo di nuovo tra le braccia, sento il liquido che mi bagna, caldo e appiccicoso. Sta ancora sanguinando. «Nell, amore, sono qui.»
«No, no... non capisci. Non... non capisci. L'ho perso. Il bambino... ho perso il bambino.»
«Lo so, amore. Lo so. Sono qui, sono qui con te.» Ho la voce incrinata, sono piegato dal dolore almeno quanto lei, ma non posso lasciarmi andare.
Finalmente sembra accorgersi che sono io.
Si abbandona tra le mie braccia, si volta verso di me.
Ha il viso sporco di sangue e sudore, i capelli arruffati e appiccicati alla fronte.
«Colton? Oddio... oddio. Non credevo che mi avresti seguito.»
La rabbia mi travolge come un fiume in piena.
«Cosa cazzo stai dicendo, Nell? Perché sei scappata? Ti amo. Pensavi che non... che non... merda... cosa pensavi che avrei detto?»
Lei mi sferra un pugno su una spalla, esausta.
«È proprio per quello che hai detto. Un bambino è l'ultima cosa che volevi. E io ero incinta. Un bambino. Un bambino, maledizione.»
«No, Nell. No. Ho detto che una gravidanza è l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno.
Non ho detto che un bambino è l'ultima cosa che voglio.
E comunque scappare... è stato un grosso errore.
Sei mia.
Il bambino sarebbe...
sarebbe stato mio.
Mi sarei preso cura di te.
Mi prenderò sempre cura di te.»
Sto piangendo.
Come una femminuccia, piango senza ritegno, mentre attraverso il campo con Nell tra le braccia, inciampando su radici e rami e sporgenze del terreno.
«Sono qui... sono qui con te.»

Sei sempre stata mia Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora