Capitolo 24

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È accanto a me e sento una pressione intorno al braccio. Vedo un asciugamano bianco, che lentamente cambia colore, virando dal rosa al porpora. Stringe talmente forte che non avverto più il dolore della ferita. Avvolge la spugna intorno al braccio e lo ferma con una cintura.
Siamo seduti per terra, la mia schiena appoggiata al suo petto. Sento il suo torace forte e il suo respiro affannato. Con una mano tiene la cintura, con l'altra il polso. Preme il viso contro la mia nuca. Sento il suo respiro nell'orecchio, tra i capelli.
«Santo cielo, Nell. Perché?»
Ritrovo la voce. Le sue parole trasudano dolore, come se avessi affondato la lama nella sua carne, e non nella mia, e voglio consolarlo. Strano. Voglio consolare il suo dolore, cancellare l'offesa del mio taglio.
«Non ce la faccio», mormoro. «È troppo. Kyle è morto e non tornerà mai più. Il senso di colpa non c'entra... lui non c'è più. È morto. Cosa resta? Qualche osso in una bara di legno, un ricordo che presto scomparirà. Non c'è niente che possa guarirmi. Nemmeno il tempo.»
«Lo so.»
«No!» esclamo piena di rabbia. «Tu non c'eri. Non sei dentro la mia testa. Non sai proprio niente.»
«Era mio fratello, Nell.» Ha la voce incrinata.

«Ma tu... sei andato via quando avevamo undici anni. Non sei più tornato a trovarlo.» Era un argomento che Kyle e io non affrontavamo mai, ma sapevo che lo turbava, lo faceva soffrire. I suoi genitori non parlavano mai di Colton.
«Sì, è vero... Ma non avevo alternative. In quel periodo cercavo soltanto di sopravvivere. Sentivo ogni giorno la sua mancanza. Gli ho scritto migliaia di lettere con il pensiero, mentre cercavo di dormire sulle panchine e negli scatoloni in fondo ai vicoli, coperto da fogli di giornale. Migliaia di lettere che non ero in grado di scrivere. Non avevo i soldi per mangiare, né un posto in cui dormire, figuriamoci se potevo comprare un biglietto d'autobus per Detroit.»
Qualcosa, nelle sue parole, mi colpisce, ma sono debole e ho la mente annebbiata e non riesco a identificarla.
Colton allenta la pressione del laccio emostatico improvvisato e solleva con cautela l'asciugamano. Il sangue continua a sgorgare piano, quasi svogliato. Mi prende tra le braccia e appoggio la testa sul suo torace ampio. Poi mi posa sul letto e sparisce, per tornare con un rotolo di garza, del cerotto e un antibiotico.
«Ci vorrebbero dei punti», dice medicando la ferita. «Ma sono sicuro che non li vuoi. Quindi ci dovremo accontentare.»
«Come fai a sapere che non li voglio?» gli chiedo.
«Li vuoi?»
«Cavoli, no. Ma come fai a saperlo?» Lo guardo mentre ferma la
fasciatura con il cerotto.
«Io non li vorrei, se fossi in te. Ti farebbero un sacco di domande,
per non parlare dell'assistente sociale, dello psicologo e del ricovero in un reparto psichiatrico. E chiamerebbero i tuoi genitori.» Mi prende il mento tra due dita, sfiorandomi la mandibola con il pollice. «E se farai un'altra stronzata del genere ci penserò io ad avvisarli. Ti porterò al pronto soccorso e telefonerò ai tuoi genitori. Dovrei farlo anche questa volta.»
«Perché non lo fai, allora?»
«Perché non capirebbero. Non stai cercando di attirare l'attenzione, non si tratta di una di quelle assurdità da strizzacervelli.» Appoggia la fronte alla mia. «Perché posso aiutarti, se me lo permetti. Possiamo affrontare tutto questo insieme.»

«Possiamo?» Merda. Merda. All'improvviso mi tremano le labbra e ho il petto gonfio di dolore. L'istinto mi grida di farmi del male, per impedire alle lacrime di uscire. Colton lo sa e mi abbraccia, mi tiene stretta. Vuole aiutarmi a tutti i costi, è deciso a farmi sentire il suo calore, il suo sostegno. Esattamente ciò di cui ho un disperato bisogno, anche se mi sono sempre rifiutata di ammetterlo. Ma lui è ostinato e non posso nascondermi, né mentire o tirarmi indietro, perché conosce i miei trucchi.
«Lasciati andare», mormora.
«No. No!» urlo con tutto il fiato che ho nei polmoni.
«Devi. Non puoi continuare così. Non puoi continuare a fingere, a
ubriacarti.»
Un brivido, un tremito, i denti che affondano nel labbro inferiore.
Pianto le unghie nella carne solida dei suoi pettorali. Non sto singhiozzando. No.
Maledizione, invece sì.
«Fa così male, Colton...» Le parole si perdono in un mare di tremiti e singhiozzi. Annaspo alla ricerca di un po' di ossigeno. «Lo rivoglio! Sono stanca di vederlo morire.»
Piango per un tempo che mi sembra interminabile e lui si limita a tenermi stretta. Alla fine mi ricompongo e parlo, e sono un fiume in piena. «Lo vedo di continuo. Ogni volta che chiudo gli occhi, lo vedo morire. Lo so che non è colpa mia, l'ho sempre saputo. Ma ho preferito crederlo, perché era meno doloroso che saperlo morto.»
«Kyle non tornerà mai più. Devi accettarlo.»
«Lo so. Ma è terribile.» E adesso arriva la parte peggiore. «Ho paura di dimenticarlo. Lo vedo morire, ma non ricordo più il suo odore. Non ricordo cosa provavo quando mi abbracciava. Quando facevamo l'amore. Quando ci baciavamo. Non mi ricordo. A volte dubito di averlo mai amato. Magari era solo una cotta da adolescenti. Forse credevo di esserne innamorata perché è stato il mio primo ragazzo. Il primo ragazzo con cui ho fatto sesso. Non lo so. E poi arrivi tu, che sei... così incredibile. Più forte di lui. Mi fai provare sensazioni che non ho mai provato, con lui. I tuoi baci sono migliori dei suoi. Quando mi hai fatto godere, ho capito che non

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