Capitolo 22

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Lei non risponde e a un certo punto mi domando se si è addormentata. Poi parla, e la sua voce è un sussurro. Respiro appena, per timore di interromperla.
«Eravamo andati nel cottage dei tuoi. Uscivamo insieme da due anni ed eravamo euforici all'idea di fare una vacanza insieme, come persone adulte. I nostri genitori ci avevano propinato il solito discorsetto sul sesso sicuro, anche se ormai erano due anni che andavamo a letto insieme. Forse avevano semplicemente finto di non vedere, fino a quel momento. Non lo so. Ma ci stavamo divertendo come matti. Abbiamo nuotato, ci siamo sdraiati accanto al falò, abbiamo fatto l'amore. Dio mio... non ce la faccio.» Sta tentando di tenere a freno le emozioni. Le passo le dita tra i capelli e le massaggio la schiena. Lei continua, è tesa, ma più decisa.
«Domenica, l'ultimo giorno, c'era un temporale. Pioveva così forte che non si vedeva niente, tirava un vento allucinante. Non ho mai visto un vento del genere. Mai. Quei pini giganteschi intorno al cottage si piegavano a metà.»
Fa una pausa, ha il respiro affannato, come se fosse sfinita, poi continua in tono più dolce, fragile. «Un albero è caduto. Avrebbe dovuto colpire me... Stava per colpirmi. L'ho visto, mentre cadeva ed ero come paralizzata. È uno dei miei incubi ricorrenti. Ma ci sono immagini peggiori che mi perseguitano. Un secondo prima che mi schiacciasse, Kyle mi ha dato una spinta, buttandomi di lato. Mi ha placcato, come su un campo di football. Mi ha fatto volare via. Sono caduta con tutto il peso su un braccio. Non ricordo il momento dell'impatto, ma solo il dolore che mi ha travolto come un'onda, e l'osso che sporgeva.» Le parole che seguono sono un sussurro quasi impercettibile. «Avrei dovuto morire io. Mi ha salvato la vita. E l'albero è caduto su di lui. Non ha avuto scampo. Lo ha ucciso. Un ramo spezzato lo ha trafitto da parte a parte. Riesco ancora a vedere il sangue che gli esce dalla bocca... la schiuma sulle labbra. Sento il suo respiro... il rantolo di una persona agonizzante. E lui... l'ho guardato, mentre moriva. Non ricordavo nemmeno l'indirizzo del cottage e me lo ha mormorato, mentre se ne andava, e l'ambulanza è arrivata troppo tardi. Mi sono strappata le unghie per cercare di spostare quell'albero maledetto. Sono caduta nel fango facendomi ancora più male. È il mio ricordo più brutto: io, distesa nel fango, che lo guardo esalare l'ultimo respiro. Lo guardo: guardo i suoi occhi che si spengono. I suoi incredibili occhi scuri. Le sue ultime parole sono state per me: 'Ti amo'.»
Non riesco a parlare. Nell trema talmente forte, sembra in preda a un attacco epilettico. Imploderà, prima o poi.
«L'altra cosa che vedo, ogni maledettissima notte, è la sua scarpa. Eravamo andati a cena in un ristorante italiano molto su. Aveva indossato le scarpe eleganti. Di cuoio nero. Con quelle stupide nappe davanti. Le odiavo. Quando l'albero lo ha colpito, l'urto è stato così forte che la scarpa è volata via. Vedo la sua scarpa infangata, sporca. Lurida. Vedo quella stupida scarpa, quelle maledette nappe del cazzo.»
Non posso stare zitto. Andrà su tutte le furie, ma devo dirlo. «Non è stata colpa tua.»
«Non dirlo! Chi cazzo sei per dirlo!» grida nel mio orecchio, e le orecchie mi fischiano.
«Allora parlami», mormoro.
«Non ci riesco. Non ci riesco.» Scuote la testa, rifiutandosi di lasciarsi andare. «È stata colpa mia. L'ho ucciso.» Un singhiozzo, poi un altro, fuori controllo.
«Stronzate. Ti ha salvato la vita. Ti amava. Non l'hai ucciso.»
«Non vuoi capire. L'ho ucciso. Stavamo litigando. Se solo gli avessi detto di sì, sarebbe ancora vivo. Non capisci. Non... non puoi. Non puoi sapere. Non lo sa nessuno. Se solo avessi accettato, sarebbe ancora vivo. E invece gli ho detto di no.»
«Detto di sì a cosa?»
Tremante e ostinata, parla in un bisbiglio e so che quelle parole la stanno uccidendo, una volta per tutte. «Mi aveva chiesto di sposarlo. Gli ho risposto di no.»
«Avevate diciotto anni.»
«Lo so. Lo so! Per questo ho rifiutato. Voleva andare a Stanford e io volevo andare a Syracuse. Sarei andata a Stanford con lui, per stare insieme, però... non potevo sposarlo. Non ero pronta. A sposarmi.»
«È comprensibile.»
«Non capisci, Colton. Non... non capisci.» Singhiozzi, adesso, parole che escono a strappi. «Mentre eravamo in auto mi ha fatto la proposta. Sono scesa, arrabbiata perché non capiva il motivo del mio rifiuto. Mi ha seguito. Siamo rimasti davanti al cottage a discutere. Io ero nella veranda. Sarà passato un minuto. Lui sul vialetto, io nella veranda. Avremmo dovuto entrare, e invece siamo rimasti lì. Non pioveva più, ma il vento era fortissimo. Ho sentito l'albero che si spezzava. Un boato, come un colpo di cannone.»
«Non lo hai ucciso, Nell. Non sei stata tu. Dirgli di no non significa...»
«Sta' zitto. Gli ho detto di no. E lui ha pensato che non lo amassi, e abbiamo sprecato così tanto tempo là fuori, tra gli alberi. Se solo gli avessi detto di sì, se fossimo entrati nel cottage, quell'albero non ci avrebbe colpito. Non avrebbe colpito me e nemmeno lui. Sarebbe ancora vivo. Ho esitato e lui è morto. Se non fossi rimasta lì, immobile, se mi fossi spostata... un solo passo, a destra o a sinistra. Potevo farlo. Ma non ne sono stata capace. E lui mi ha salvato e... ed è morto. Morto, per colpa mia.»
«No.»
«Sta' zitto!» grida con il viso contro il mio petto. «L'ho ucciso. Non c'è più ed è colpa mia... solo mia. Lo rivoglio.» Le ultime parole sono un sussurro e sento finalmente il calore delle sue lacrime sul mio torace.
All'inizio piange in silenzio. Forse si aspetta di essere commiserata per la sua debolezza. Ma non succederà, ovviamente. La tengo stretta. Non le dico che va tutto bene.
«Sfogati. Liberati. Piangi.»
Lei scuote il capo, muove appena il collo, un rifiuto inutile. Un gemito acuto di gola. Straziante.
Una volta ho visto un gattino in un vicolo, accanto alla sua mamma. La gatta era morta. Il gattino le dava dei colpetti e miagolava, un lamento continuo da spezzare il cuore, straziante. Diceva: Che cosa faccio? Come farò a vivere? Come potrò andare avanti?
È il suono che esce dalla gola di Nell, non c'è dubbio. Ma è anche molto peggio. È una cosa che mi lacera l'anima. Non riesco a respirare, per la sofferenza che mi provoca. Perché non posso farci un bel niente, a parte tenerla accanto a me.
Incomincia a dondolarsi tra le mie braccia, avvinghiandomi le spalle nude così forte che mi ferisce, ma non mi importa, perché così non farà male a se stessa. Adesso sono singhiozzi lunghi, serrati, che la scuotono dalla testa ai piedi e maledizione, sono due anni di lacrime trattenute e strazio represso che stanno uscendo in una volta. È una cosa violenta.
Non so nemmeno per quanto tempo piange. Il tempo smette di esistere mentre lei si strugge, inconsolabile. Emette questi suoni come se l'anima le venisse strappata dal petto, e intanto il dolore si prende la sua rivincita.
Un dolore antico, potente.
Ho il torace bagnato di lacrime. Le spalle graffiate. Sono intorpidito e indolenzito a forza di tenerla tra le braccia, immobile. Sono esausto. Ma non importa. La terrò così finché non sarà tutto finito.
Poi i singhiozzi si placano e si limita a piangere, piano. Ora posso consolarla.
Nell'unico modo che conosco, cantando:
Placa i singhiozzi, bimbo sperduto. Sopisci i lamenti.
Stai bene, ora.
Stai bene.
Non piangere, asciuga gli occhi.
Butta via il dolore, posalo a terra, lascialo agli uccelli. Non soffrire più, bimbo sperduto.
Alzati e vai, guarda avanti e lasciati il dolore alle spalle. Va tutto storto, va tutto male.
Lo so, lo so.
La notte è lunga, buia e crudele.
Lo so, lo so.
Non sei solo. Non sei solo.
Qualcuno ti ama. Qualcuno ti sorregge.
Placa i singhiozzi, bimbo sperduto.
Stai bene, ora.
Stai bene.
Resisti, un giorno in più.
Resisti, un'ora in più.
Qualcuno arriverà.
Qualcuno ti stringerà forte.
Lo so, lo so.
Va tutto male, va tutto storto.
Ma se tieni duro,
un giorno in più, un'ora in più.
Tutto questo svanirà.
Nell non parla, mi fissa con i suoi occhi grigio-verdi, come pietre foderate di muschio. Ha ascoltato ogni parola.
«L'hai scritta tu?» mi chiede.
Annuisco, il mento che sfiora la sua testa.
«Per chi?»
«Per me.»
«Gesù, Colton.» È quasi afona, a furia di piangere. Ha la voce
roca. Sexy. «È così triste.»
«Rifletteva il mio stato d'animo di allora», replico. «Non avevo
nessuno che mi consolasse, così mi sono scritto una canzone.»
«Ha funzionato?»
Sbuffo, perché la domanda è ridicola. «Se la cantavo abbastanza,
alla fine mi addormentavo, quindi direi di sì, ha funzionato.»
Poi, finalmente, la guardo dritto negli occhi. È un grosso sbaglio. Sono spalancati e ha un'espressione intensa, piena di sofferenza e
tristezza e compassione. Non c'è nessuna pietà. Darei di matto, se vedessi la pietà nei suoi occhi, e credo che lei farebbe lo stesso.
Compassione e pietà sono due cose ben distinte: pietà significa osservare qualcuno con commiserazione, provare dispiacere, non avere niente da dare; compassione significa vedere davvero la disperazione e offrire comprensione.
È di una bellezza devastante. Affogo nei suoi occhi, mi abbandono. E le sue labbra. Rosse, screpolate, contratte, come se mi supplicassero di baciarle, sono troppo vicine per essere ignorate. All'improvviso sento il suo corpo contro il mio, il suo seno contro il mio torace, la sua coscia liscia e soda, bianca come il latte, abbandonata sulla mia. Il suo palmo, le lunghe dita leggermente piegate sulla mia spalla e un fremito sulla pelle, dove mi sfiora. Sono senza fiato. Il respiro è rimasto incastrato in fondo alla gola. Voglio baciarla. Ho bisogno di baciarla. O non riuscirò mai più a respirare.
Sono uno stronzo, quindi la bacio. Lei merita tutta la delicatezza di questo mondo, così la mia bocca è una piuma, lieve e impalpabile, sulla sua. Avverto ogni increspatura delle sue labbra; sono secche e spaccate a forza di piangere, disidratate. Le inumidisco con le mie, bacio prima il labbro inferiore, poi quello superiore, lo assaporo, lo tocco. Lei sospira.
Direi che sta andando tutto bene, sembra che piaccia anche lei. Ero terrorizzato all'idea che andasse su tutte le furie, che mi mollasse un ceffone, che fuggisse. Che mi dicesse che il pensiero di baciare un mostro sanguinario come me la disgusta. Non la merito, ma si dà il caso che sia un bastardo egoista, quindi prendo tutto quello che posso e tento di darle il meglio che ho da offrirle.
Lei non ricambia il mio bacio, però. Cambia posizione e stringe le dita sul mio petto, ma la bocca? Un attimo, mi permette di reclamare la sua bocca. Prendo il suo labbro inferiore tra i denti, delicatamente. Con la mano, sgarbata e ruvida e callosa, le accarezzo una guancia, scostandole un ricciolo ribelle dal viso. Lei mi lascia fare. Stupida ragazza. Lasciare che un mostro come me la baci, la sfiori. Ho paura che il grasso che ho sotto le unghie le rovini la pelle, paura che il sangue marcio che mi scorre nelle vene mi esca dai pori e macchi la sua pelle d'avorio.
Lei abbandona il viso contro il mio palmo. Apre la bocca, mi bacia. Oh, meraviglia. Cristo santo, la ragazza ci sa fare. Sono incredulo che lei mi permetta di baciarla, che anzi mi stia ricambiando.
Non so perché. Non sono un tipo per bene. Anzi. Mi sono limitato a tenerla tra le braccia, mentre piangeva. Non potevo fare nient'altro.
Metto fine al bacio prima che si trasformi in qualcos'altro. Lei mi guarda, le labbra socchiuse, umide e rosse come ciliegie mature. Oh, cazzo, non resisto alla tentazione e lascio che un altro brandello della fame divorante che nutro per la sua bellezza sgorghi in questo nuovo bacio. Lei ricambia con la stessa intensità, spostandosi in modo da essere sopra di me, e non mi blocca quando le mie mani scendono dalla sua nuca, lungo la curva della schiena, per fermarsi sulle reni, appena sopra la rotondità del suo culo. Non oso spingermi oltre.
È follia pura. Cosa diavolo sto facendo? Ha appena finito di consumarsi gli occhi a furia di lacrime, ha pianto per ore. Sta cercando conforto, oblio. Non posso averla in questo modo. Mi ritraggo di nuovo, mi sottraggo al suo abbraccio.
«Dove vai?» mi chiede.
«Non riesco a respirare, se mi baci così. Quando mi permetti di baciarti. Non... non va bene. Non va bene per te. Me ne sto approfittando.» Mi allontano, serro le mani, arrabbiato con me stesso. Merita uno migliore.
Prendo la chitarra, la tolgo dalla sua custodia e salgo sulle scale traballanti e scricchiolanti che conducono al tetto, con una bottiglia di Jameson in mano.
Mi butto sull'orribile poltrona azzurra logorata dalle intemperie che ho trascinato quassù, svito il tappo e mando giù un bel sorso. Mi rilasso, appoggio i piedi sul cornicione e guardo disperdersi la foschia grigio-rosa dell'alba, con lo strumento in grembo, pizzicando le corde svogliatamente.
Comincio a esercitarmi con la canzone che sto studiando: The Girl di City and Colour, ovvero Dallas Green. Ma me ne pento quasi subito, perché il testo mi fa venire in mente una ragazza che non merito, e cioè Nell. Ma è un brano che mi dà alla testa, quindi mi lascio rapire e non mi accorgo nemmeno che sta salendo le scale.
«Sei così bravo, Colton», dice quando ho finito.
«Grazie.»
Si è rimessa i jeans e tiene una delle mie chitarre in mano. Si
siede a gambe incrociate su un divanetto arancione.
«Suonami qualcosa», le chiedo.
«Faccio schifo. Conosco soltanto un paio di canzoni.»
«Canti come un angelo, cazzo. Davvero. Hai la voce più dolce e
melodiosa che abbia mai sentito.»
«In compenso a suonare faccio proprio pena.» Però intanto sta
accordando la chitarra.
«Vero», concordo. «Ma non si nota, quando inizi a cantare. Inoltre
se continui, farai progressi.»
Lei mi guarda esasperata e attacca. Non riconosco subito la
canzone. Devo aspettare il primo ritornello. È una melodia bassa e morbida, che mi cattura, venata di malinconia. Le parole sembrano... antiche, ma le capisco. Sono dolci, piene di nostalgia. Sta cantando My Funny Valentine di Ella Fitzgerald. Almeno, io la conosco in quella versione. Ci sono almeno una decina di versioni diverse, ma penso che sia diventata famosa grazie a lei.
Il modo in cui la canta Nell... la sua voce è un po' troppo acuta per com'è stato scritto il brano, ma lo sforzo per raggiungere le tonalità più basse la rende ancora più languida. Come se il desiderio fosse qualcosa di tangibile, così forte dentro di lei, da non riuscire a eseguire correttamente le note.
Suona gli ultimi accordi, ma io le faccio segno di non smettere, così strimpella in silenzio, poi attacca con un ritmo lento, dal sapore blues. Oddio, è perfetta. È Dream a Little Dream of Me, la duettano Louis Armstrong ed Ella. Adoro quella canzone. Lei non ne ha idea. La lascio senza fiato quando, con tempismo perfetto, attacco con la parte di Louis. Lei mi fa un gran sorriso e continua a cantare, e siamo fortissimi, insieme.
Non mi sarebbe mai venuto in mente di eseguire classici del jazz in chiave folk. È così sexy, così nuovo. Conosco la canzone, così posso improvvisare un po', fare un paio di virtuosismi per arricchire la sua interpretazione.
Concludiamo il pezzo e vorrei continuare all'infinito. Mi butto e attacco con Stormy Blues di Billie Holiday. È un brano lento e la voce trasparente di Nell e la mia, più ruvida, la trasformano in una ballata. Da una finestra aperta del palazzo accanto all'officina viene la vera voce di Billie, dal luogo in cui ho ascoltato quel disco la prima volta. La signora Henkel aveva una passione per il jazz. Era anziana e sola e il jazz la faceva pensare al marito, morto da tempo, così spalancava le finestre e metteva sul giradischi Billie ed Ella e Count Basie e Benny, e ballava e ricordava. La aiutavo con la spesa e mi dava un pizzicotto sul sedere e mi diceva che avrebbe fatto un pensierino su di me, se solo avesse avuto cinquant'anni di meno. Mi preparava un tè e lo correggeva con un po' di whisky e ascoltavamo la musica.
L'avevo trovata sul letto, gli occhi chiusi, con una foto del signor Henkel sul petto florido e un sorriso sul viso. Ero andato al suo funerale, scandalizzando il suo ricco, stronzissimo nipote.
Sono un libro aperto e Nell mi chiede a cosa sto pensando. Così le racconto della signora Henkel. Delle nostre lunghe chiacchierate, mentre ci sbronzavamo con Earl Grey corretto. Di come mi prendeva in giro per i tatuaggi e i pantaloni larghi. Quando ho incominciato a rigare dritto e ho smesso di fare il gangster, era deliziata dai miei jeans attillati.
Quello che non le dico, è che passare il tempo con la signora Henkel era da veri egoisti. Ero solo al mondo. Avevo smesso di frequentare i ragazzi della gang, tutti eccetto Split, non avevo nessuno. Lei era mia amica, qualcuno che mi trasmetteva un'influenza positiva. Probabilmente se la sarebbe fatta nel pannolone, se avesse saputo la metà delle cose che avevo combinato, e penso che in cuor suo lo sospettasse, visto che non mi aveva mai fatto domande.
Poi resto in silenzio.
«Spiegati meglio», dice Nell.
«Riguardo cosa?» So benissimo a cosa allude, ma non voglio
dargliela vinta.
«Perché non vai bene? Perché ti approfitteresti di me?»
Poso la chitarra e bevo un sorso dalla bottiglia, poi gliela porgo.
«Sono... incasinato, Nell.» «Anch'io.»
«Ma sono due cose diverse. Sono un pessimo elemento. Cioè, non sono cattivo, ho anche delle qualità che mi riscattano, però...» scuoto la testa, incapace di esprimerlo a parole. «Ho fatto delle cose orribili. Sto cercando di restare fuori dai guai, ma questo non cancella gli errori del passato.»
«Credo che tu sia una brava persona», sussurra, senza guardarmi.
«Hai visto come ho conciato quella testa di cazzo di Dan.»
Lei ride. «Quella testa di cazzo. Sì, ho visto, e sì, mi sono spaventata a morte. Ma mi stavi proteggendo. Difendendo. E ti sei fermato in tempo.»
«Ma non avrei voluto.»
«Però lo hai fatto. Ti sottovaluti, Colton. E hai la presunzione di sapere cosa voglio.»
«Cioè?»
«Ti ho baciato. È una cosa folle, fuori di testa, e mi frastorna. Ma l'ho fatto perché lo volevo. Non ero ubriaca.» Mi guarda, attraverso le lunghe ciglia scure, gli occhi che esprimono più di mille parole.
Ho la gola secca. «Non avrei dovuto baciarti.» «Però lo hai fatto.»
«Sì. Sono un bastardo. Non posso resisterti, mi dispiace.»
«Non penso che tu sia un bastardo. Penso che tu sia dolce. Gentile», dice con un sorriso timido sulle labbra.
«Per carità. È soltanto l'effetto che mi fai. Divento di gelatina. Ma rimango sempre un delinquente, Nell. Dalla testa ai piedi.»
«Una volta, forse», ribatte.
«Se sei stato un delinquente, lo rimani per sempre. Magari non frequento più i bassifondi, ma fa comunque parte di me.»
«E mi piace, quello che sei.»
Mi alzo, sono a disagio con quei discorsi. «Si è fatto tardi. Dovremmo dormire.»
Lei guarda il sole, che sta spuntando tra un paio di grattacieli. «È presto, però sì, sono sfinita.»
Prendo la sua chitarra e la tengo per mano, scendendo le scale. Mi piace sentire la sua mano nella mia. Non voglio lasciarla andare, quindi non lo faccio. E nemmeno lei. Nell va in bagno e io mi metto un paio di pantaloncini. Finalmente, lascio che il dolore causato dallo scontro con Dan si impadronisca di me. Mi stiro, avverto una fitta alle costole, muovo il dente con la punta della lingua, faccio una smorfia per il male. In quel momento Nell esce dal bagno con un asciugamano bagnato. La guardo diffidente, poi mi allontano, quando fa per toccarmi il viso.
«Sto bene», brontolo.
«Sta' zitto e non muoverti.»
Alzo gli occhi esasperato, ma mi avvicino. Il suo tocco è troppo
delicato, per un cane randagio come me. Mi sfiora il mento, mi gira la faccia di lato, pulisce i tagli e le contusioni. Smetto di respirare, a causa della sua vicinanza, a causa della meraviglia inebriante che è il suo profumo, shampoo e agrumi e whisky e odore di donna. Mi pulisce la guancia, gli occhi socchiusi mentre si concentra per eliminare il sangue incrostato che mi imbratta il viso. Mi ero dato una ripulita, mentre era sotto la doccia, ma evidentemente non era stato sufficiente. Mi deterge il labbro superiore, la fronte, gli zigomi. Poi appoggia l'asciugamano e mi accarezza il viso con le dita, toccando ogni taglio con delicatezza, esplorandomi.
Resto immobile. Mi spaventa. Mi guarda come se mi vedesse per la prima volta, come se volesse memorizzare i tratti del mio volto. Il suo sguardo è intenso, bisognoso. I suoi pollici mi solleticano le labbra e ne mordo uno, un po' forte.
Spalanca gli occhi e le sue narici fremono e ha un sussulto, quando le passo la lingua sul polpastrello. Cosa cazzo sto facendo? Ma non riesco a fermarmi.
Questa volta si allunga verso di me. Toglie il pollice dalla mia bocca e ci posa le labbra. La sua lingua. È una follia. Non dovrebbe accadere.
Ma lo faccio. Dio, se lo faccio. Ricambio il bacio, spinto da un desiderio che mi consuma. Siamo nella mia stanza, a pochi centimetri dal letto. Sarebbe così semplice spingerla sopra e toglierle i vestiti...
Mi ritraggo. Lei sospira, delusa.
«Perché mi respingi?» mi chiede.
Mi sciolgo dal suo abbraccio, a malincuore. Sono confuso,
incasinato. La voglio, ma una voce dentro la mia testa mi dice che è sbagliato. Una parte di me sa che siamo fatti l'uno per l'altra, mi dice di prenderla tra le braccia e non lasciarla andare. Sembra volermi, e io la desidero così tanto... ma lo so: non sono abbastanza, per lei.
«Dobbiamo dormire» ribatto. «Puoi tenerti il letto.» Mi giro, ma mi trattiene per un gomito.
«Non voglio dormire sola. Dormo sola da troppo tempo. Voglio solo... che mi abbracci. Ti prego.» All'improvviso è di nuovo vulnerabile.
Non dovrei. La tentazione è forte e non so più cosa è giusto e cosa sbagliato. Ma non posso rifiutare.
«Va bene. Anzi, non c'è niente al mondo che desideri di più.»

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